8 Ottobre 2018
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
A un anno di distanza dal referendum sulla separazione da Madrid, la Catalogna continua a trovarsi in una situazione difficile.
Su iniziativa di Carles Puigdemont lo scorso autunno si era tentato di avviare un processo di autodeterminazione per via legale e referendaria. Il primo ottobre i catalani erano stati chiamati alle urne e avevano in maggioranza votato per dare vita a una Catalogna indipendente. Quel voto, però, era stato ostacolato dall’intervento violento della Guardia Civil inviata dall’esecutivo di Madrid, guidato da Mariano Rajoy. Nei giorni successivi il governo di Puigdemont aveva comunque preso atto della volontà popolare espressa nelle urne, ma aveva subito sospeso gli effetti della dichiarazione unilaterale d’indipendenza.
Di fronte alle iniziative dei separatisti la reazione è stata durissima: molti esponenti dell’indipendentismo sono stati messi in prigione (dove sono tuttora), mentre altri – tra cui lo stesso Puigdemont – sono stati costretti a lasciare il paese. Il confronto delle idee è stato sequestrato da una magistratura politicizzata, determinata a tutto pur di preservare l’unità nazionale.
A questo punto la società catalana è entrata in una fase caotica. Le ritorsioni di Madrid hanno obbligato varie imprese e banche a lasciare la regione catalana, mentre si sono moltiplicate le intimidazioni a insegnanti, giornalisti e intellettuali. Dopo lo scioglimento del parlamento catalano voluto da Rajoy, però, l’alleanza indipendentista – che include forze moderate e progressiste – ha di nuovo vinto le elezioni, ponendo alla guida della Generalitat una personalità vicina al presidente in esilio, Quim Torra. Di seguito a Madrid i socialisti sono riusciti a far cadere il governo del Partido popular, consegnando a Pedro Sanchez la guida dell’esecutivo.
Questi cambiamenti non hanno comunque fatto progredire il processo di autodeterminazione, dato che la sinistra spagnola non si è mostrata più pronta della destra ad accettare il dialogo con i separatisti.
E così ci troviamo con una Catalogna in cui una metà abbondante della popolazione non riconosce legittimità alla monarchia di Madrid e vede in Quim Torra il proprio presidente, mentre l’altra parte invoca la fine di ogni autogoverno e si batte pure per la fine del bilinguismo. Pure negli scorsi giorni si sono avuti scontri, entro un quadro che rimane molto teso e vede pure emergere frizioni tra le posizioni radicali e quelle più moderate.
La crisi catalana ha fatto sì che, in Spagna, tutta la battaglia politica ruoti ormai attorno al tema dell’unità. La destra nazionalista (da Ciudadanos al Partido popular) sa di poter ottenere consenso nel paese giocando la carta sciovinista e avversando le richieste di Barcellona, mentre la sinistra spera che prima o poi la disillusione prevalga sul desiderio di autodeterminarsi. Nessuno intende accogliere la sfida democratica che la Catalogna ha indirizzato al potere di Madrid, chiedendo di votare sui confini. In questo scenario, l’Europa è la grande assente, disposta anche a chiudere gli occhi dinanzi alla violazione dei diritti più elementari. A Bruxelles e nelle capitali europee tutti fanno finta di nulla, con il risultato che si mette sotto processo l’Ungheria di Victòr Orban, ma non si dice sulla Spagna che mette in galera gli oppositori (un tema su cui tace pure il governo italiano).
La controversia catalana evidenzia come il conflitto tra le élite legate all’Unione e i movimenti populisti interpreti del nuovo nazionalismo sia spesso più apparente che reale, poiché entrambi i fronti sono schierati con Madrid, che è Stato sovrano e pilastro della comunità. Marine Le Pen Matteo Salvini ignorano la richiesta dei catalani di votare, perché il loro sovranismo li mette in sintonia con la Spagna unitaria. E certo hanno ragione nel pensare che la difesa dello Stato non si esprime solo nel respingimento dei migranti, ma anche nella repressione di chi punta a frantumare la nazione. Sull’altro fronte, poi, quanti vogliono costruire il super-Stato europeo sanno che se esso vedrà la luce sarà per decisione degli Stati, i quali vanno protetti di fronte a chi vuole localizzare il potere adottando strategie referendarie “alla scozzese”.
Il risultato è che i separatisti catalani sono soli, poiché devono fare i conti con la volontà di Madrid di negare loro ogni libertà d’iniziativa e con un’Europa degli Stati che anche di fronte alle ingiustizie più palesi preferisce guardare dall’altra parte. La loro forza, però, consiste proprio nello smascherare questo teatrino che vede protagonisti i politici vecchie quelli nuovi, in definitiva non così diversi tra loro.
Oggi la Catalogna è sospesa tra un passato unitario che la metà della popolazione rifiuta e un futuro imprevedibile. Tra Barcellona e Girona, tra Tarragona e Lleida, il compromesso tra Stato e democrazia è però ormai in crisi, perché o trionfa la mistica dello Stato (e allora è negata ogni espressione della volontà dei singoli), oppure emerge quel “diritto a decidere” che può dissolvere la pretesa assolutistica dei governanti di Stato.
Pur con le sue difficoltà, la Catalogna è quindi l’avanguardia di un’Europa diversa e si spera davvero che non siano i difensori del potere statale – tecnocrati o populisti – a bloccare questa evoluzione verso società più aperte e plurali.
Da La Provincia, 7 ottobre 2018