22 Luglio 2015
Il Giornale
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Una storia di più mille anni non può dissolversi senza lasciare tracce: e questo è ancor più vero se a quella vicenda plurimillenaria appartengono figure come Marco Polo e Paolo Sarpi, Tiziano Vecellio e Antonio Vivaldi. La Repubblica di Venezia muore a Campoformio, per volontà di Napoleone, ma da quel 1797 in poi numerosi episodi hanno visto i veneti sognarne la rinascita. E non ci si riferisce solo alla Repubblica di San Marco guidata da Daniele Manin (un’esperienza istituzionale che durò quasi un anno e mezzo, dal marzo del 1848 all’agosto del 1849), poiché spinte ribelli si sono avute in varie circostanze.
L’ultimo lavoro di Ettore Beggiato (Questione veneta. Protagonisti, documenti e testimonianze, edito da Raixe Venete e in vendita a 15 euro) accende i riflettori su questa costante aspirazione all’indipendenza. L’obiettivo dell’autore è aiutare a comprendere il profondo malcontento di un Veneto che continua a non sentirsi a proprio agio all’interno delle istituzioni italiane, così come era analogamente riottoso quando a governarlo erano i francesi o gli austriaci. Dalla documentazione raccolta nel volume emerge una storia in parte sorprendente, se si considera che perfino il 12 giugno del 1945, poco dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, un telegramma del ministro dell’Interno si rivolgeva al prefetto di Venezia per avere informazioni sule spinte separatiste.
Il motivo di quella richiesta stava nel fatto che su L’Avanti!, organo del partito socialista, un’intervista al professor Ugo Morin (presidente del Cnl del Veneto) aveva richiamato l’attenzione su un gruppo volto a ottenere «una autonomia integrale del Veneto e alla costituzione di una Repubblica di San Marco». Ma spinte centripete di questo tipo si incontrano di continuo, come un fiume carsico che periodicamente viene alla luce.
La prima importante manifestazione di questo spirito si ebbe ne11809. Contro i francesi e in sintonia con altre rivolte in varie parti d’Europa, in Veneto hanno luogo ribellioni popolari che il 10 luglio portano addirittura alla nascita di un governo provvisorio con sede a Schio, nel Vicentino. In quegli anni le «insorgenze» anti-napoleoniche sono molte, dal Tirolo di Andreas Hofer alla Spagna della guerra d’indipendenza, ma ciò che colpisce della vicenda veneta è il silenzio successivo: il quasi totale oblio di quelle iniziative politiche che tentarono di riportare invita la Serenissima.
La tesi di Beggiato è che studiare il passato aiuta a comprendere come il disagio del Veneto contemporaneo affondi in un’identità lungamente negata e in una serie di soprusi causati da un potere statale sempre più oppressivo. Da oltre due secoli il Veneto soffre una grave mancanza di libertà ed è vittima di malgoverni di ogni genere. Con determinazione esso ha manifestato a più riprese questa sua voglia di autogoverno in molteplici modi e, soprattutto, ha sempre coltivato un forte sentimento di ostilità verso le istituzioni. Il volume sottolinea come taluni scrittori abbiano bene compreso questa difficoltà veneta a sentirsi a proprio agio in Italia. Nel 1982 sul Corriere della Sera Goffredo Parise scrisse un articolo memorabile che iniziava in questo modo: «Il Veneto è la mia patria». E qualche anno dopo Indro Montanelli parlò senza mezzi termini della Repubblica Veneta come di «una civiltà non italiana, ma europea e cristiana».
Quello che questi e altri autori colgono in forma intuitiva una volontà indipendentista che, sul piano politico, ritraduce in un susseguirsi ininterrotto di iniziative e movimenti: più o meno spontanei, più o meno organizzati. Quanti pensano che parole come indipendenza o auto determinazione siano apparse nel dibattito pubblico veneto solo a partire dalla nascita della Liga Veneta, nel 1980, forse non sanno che all’indomani della Grande Guerra l’onorevole Luigi Luzzatti, già presidente del Consiglio dei ministri, mise in guardia Vittorio Emanuele Orlando in merito alla possibilità di «un’Irlanda Veneta», e cioè di una rivolta separatista. Non erano timori infondati, se si considera che ne11921 alle elezioni politiche si presentò una lista «Leone di San Marco» che in provincia di Treviso ottenne i16,1% dei voti. Parallelamente operava un socialista anomalo come il deputato Guido Bergamo, il quale arrivò ad affermare: «Ora basta! Il problema veneto è così acuto che noi da oggi predicheremo la ribellione dei veneti. Cittadini, non paghiamo le tasse, non riconosciamo il governo centrale di Roma, cacciamo via i prefetti, tratteniamo l’ammontare delle imposte dirette nel Veneto».
Come Beggiato sottolinea, è sempre un intreccio di motivi anche diversi a tenere in vita il desiderio dei veneti di essere «padroni a casa loro». Ci sono ragioni culturali e perfino linguistiche (se si considera l’attaccamento dei veneti alla lingua di Carlo Goldoni e Giacomo Casanova), motivazioni storiche e simboliche, frustrazioni economiche, aspirazioni libertarie. Se la Repubblica di Venezia era stata uno dei centri economici della prima globalizzazione, con la perdita dell’autogoverno questo territorio è entrato in un declino causato dalle tasse, dalla devastazione delle guerre, dalla coscrizione obbligatoria.
In tal senso a più riprese il leone di San Marco ha finito per incarnare un passato glorioso che fa sfigurare il presente, ma al tempo stesso è pure divenuto il simbolo di una battaglia ideale volta a restituire ai veneti la libertà di governarsi da sé. Non è un caso se qualche settimana fa il sistema politico italiano, su richiesta del governo Renzi, ha dovuto scomodare la Corte costituzionale affinché annullasse una legge regionale veneta che istituiva un referendum consultivo sull’indipendenza. A Venezia si era pensato che se un plebiscito (truffaldino) nel 1866 aveva decretato il passaggio del Veneto all’Italia, un altro voto popolare potesse restituire ai veneti la facoltà di costruire proprie istituzioni. La repubblica italiana ha negato ai veneti la facoltà di votare, ma è forte la sensazione che oggi come ieri sotto la cenere vi siano braci che continuino ad ardere.
Da Il Giornale, 22 luglio 2015