Il sortilegio passatista

La nostra comprensione delle dinamiche competitive si ferma a prima della rivoluzione di Chicago

30 Giugno 2017

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

L’ Italia ha un problema con le liberalizzazioni e, di conseguenza, ne ha uno con la crescita e l’occupazione. Il ddl Concorrenza, uscito da Palazzo Chigi 860 giorni fa, ne è la metonimia perfetta. Il provvedimento, ritoccato chirurgicamente a Montecitorio, dovrà ora tornare al Senato per il quarto passaggio parlamentare e il via libera definitivo. Finalmente, dopo un percorso tortuoso e accidentato, si vede il traguardo: è una buona notizia sia per i benefici economici che la legge potrà determinare, sia perché mostra che, nonostante tutto, il paese ancora dispone di anticorpi riformisti. Eppure, non si possono ignorare le immense difficoltà che il ddl ha incontrato lungo la strada. Sarebbe riduttivo imputare i ritardi ai cinque emendamenti della Camera. Sarebbe ingenuo anche attribuirne la responsabilità ai contrasti politici tra maggioranza e opposizione e interni alla maggioranza. Sarebbe sbagliato perfino prendersela col bicameralismo paritario, che pure ci mette del suo. La realtà è che questo pacchetto di liberalizzazioni, al pari dei precedenti, ha avuto vita complicata fin da subito, raramente è stato vissuto come un obiettivo da rivendicare, e più spesso è stato percepito come un “compito a casa” da svolgere, senza entusiasmo né fretta, per compiacere le istituzioni internazionali. Il motivo è semplice e, al tempo stesso, complesso: se, citando Claudio Cerasa, “senza concorrenza l’Italia è fottuta”, gli italiani faticano a capirlo; come faticano a comprendere le ragioni e il significato delle liberalizzazioni.

È vero, i sondaggi a prima vista sembrerebbero dire il contrario. Quando vengono interrogati, gli italiani si lamentano del peso delle corporazioni e invocano più competizione. Secondo un Eurobarometro del 2015, circa la metà ritiene che la concorrenza promuova la libertà di scelta e la riduzione dei prezzi, e attorno all’80 per cento la mette in relazione con l’innovazione, il miglioramento della qualità dei prodotti e la protezione del consumatore. Si tratta di una risposta sostanzialmente in linea con la media europea. Un’indagine Swg del 2016 conferma questo risultato, con un 47 per cento a favore dell’apertura dei mercati e solo il 31 per cento che invoca più intervento pubblico.

Eppure, le liberalizzazioni faticano a entrare nel discorso politico. Se succede, è per accidente e solo in modo fumoso. La convinzione diffusa è che, sia nella retorica sia nella sostanza, la concorrenza non sia lo strumento adatto per acchiappare voti. Al contrario, le liberalizzazioni sono viste alla stregua di una liability alle urne, tant’è che vi è un coerente sforzo di allontanarle dalle scadenze elettorali (che in Italia ci sono ogni pochi mesi). Non vi è evidenza di alcun tentativo uguale e contrario contro le frequenti incursioni delle “corporazioni” nei diversi provvedimenti, che si traducono in limitazioni della libertà d’impresa (citofonare Flixbus).

Perché? Una possibile riposta è che tutti, in un modo o nell’altro, beneficiano di qualche rendita, e pertanto pur potendo trarre vantaggio dall’apertura degli altri mercati si inalberano a difesa del proprio cantuccio, sicché la coalizione dei protezionisti è sempre più ampia di quella dei riformisti. Se questo fosse vero, allora la logica del ddl Concorrenza affrontare simultaneamente, in un unico provvedimento, un ampio ventaglio di interessi avrebbe dovuto rivelarsi vincente: infatti, i benefici aggregati superano i costi, non solo dal punto di vista macroeconomico, ma anche da quello della percezione dei singoli. Invece non è stato così: anzi, come hanno rilevato (tra gli altri) i senatori Linda Lanzillotta e Walter Tocci l’eccessivo perimetro di intervento della legge per la concorrenza si è rivelato il suo principale elemento di fragilità. Il che, naturalmente, solleva la duplice questione se un ddl omnibus sia lo strumento più adatto. Di fatto, tranne che per i recepimenti di direttive europee, le liberalizzazioni in Italia si sono sempre materializzate attraverso norme con un elevato grado di eterogeneità, ma in forma di decreto piuttosto che di disegno di legge (le lenzuolate, il “Cresci Italia”, ecc.). Una riflessione sul tema è senz’altro necessaria ma non può esaurire l’argomento: essa riguarda infatti la gestione parlamentare dei provvedimenti, non la loro dimensione politica.

Neppure la spiegazione “marxiana” cioè la pressione degli interessi economici basta a spiegare l’impasse. Beninteso, le lobby giocano un ruolo (legittimo). La fisiologica asimmetria tra i costi concentrati per i rentier e i benefici diffusi per la società spiega perché gruppi di pressione di limitate dimensioni riescono spesso a portare a casa risultati apparentemente sproporzionati e contrari al benessere collettivo, come ampiamente studiato da Guido Tabellini e Torsten Persson. La naturale resistenza delle burocrazie per le quali le liberalizzazioni implicano spesso una deprivazione di status e di potere è anch’essa una tessera del puzzle. Lo spiegano Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri nel loro libro I signori del tempo perso. Ma, ancora una volta, per quanto le burocrazie possano remare contro, il “grande vuoto” attorno alle liberalizzazioni nasce altrove.

Bisogna scavare più in profondità, e lo si può fare partendo da un esempio. Il Senato sta discutendo un disegno di legge, già licenziato dalla Camera, finalizzato a imporre il “software libero” e scardinare i sistemi chiusi, nei quali hardware e software sono inscindibili (Apple è il caso più noto). L’aspetto più interessante è la pretesa di far coincidere l’idea di concorrenza con uno specifico posizionamento di mercato: quando invece, come ha rilevato Sergio Boccadutri, in tal modo “si sacrifica la libera innovazione imprenditoriale e si va a incidere sulle scelte di business”. La medesima idiosincrasia anti-concorrenziale si è posta in merito a una delle norme più dirompenti del ddl Concorrenza, quella che consente l’ingresso delle società di capitali nella distribuzione farmaceutica: anche qui, dietro lo spauracchio dell’arrivo di operatori di grandi dimensioni, si è cercato di difendere, prima ancora che la rendita dei farmacisti, l’attuale struttura del settore, basata sull’estrema frammentazione e la titolarità della licenza in capo ai soli professionisti. Questo ci aiuta ad avvicinarci al punto centrale: un regime concorrenziale non si traduce solo, staticamente, nella contesa per le quote di mercato da parte di numerosi soggetti tutti con caratteristiche (e costi di produzione) simili tra di loro. Esso si alimenta anche, e soprattutto, dell’innovazione organizzativa, ossia del confronto tra modelli alternativi e dello sforzo di differenziare i prodotti.

Una delle citazioni di John Maynard Keynes preferita dagli economisti, per ovvie ragioni, è quella in cui l’autore della General Theory dice che “gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto”. È come se il paese fosse prigioniero di un incantesimo: la nostra comprensione delle dinamiche competitive si ferma a prima della rivoluzione di Chicago. Il dibattito pubblico si svolge interamente all’interno di una bolla nella quale Gary Becker, Ronald Coase, George Stigler e tanti altri sono defunti invano (Harold Demsetz, Sam Peltzman e Richard Posner sono ancora vivi, ma pure la loro esistenza sembra non aver lasciato segno nel nostro paese). Questo strabismo sul significato stesso della concorrenza è particolarmente grave se calato nel nostro qui-e-ora. Il “qui”, cioè l’Italia, è un paese in deficit di produttività, che emerge faticosamente da una lunga e severa recessione, ma che non ha spazio fiscale sufficiente per stimolare l’economia con un robusto taglio delle tasse (il quale, beninteso, resta necessario, ma difficilmente attuabile nel breve termine). La deregolamentazione dell’economia è l’unica leva concretamente utilizzabile nell’immediato. Ed entra in gioco il nostro “ora”: una fase storica in cui la creazione di valore e occupazione appare sempre più legata al settore dei servizi, nei quali la “malattia della produttività” è ben più acuta che nel manifatturiero. In tale ambito l’integrazione europea ha fatto meno progressi, come si vede dal basso livello di interscambio nei servizi, e ciò per la resistenza degli stati membri sia ad aprire i mercati sia a renderli permeabili. Non è casuale se, nel loro recente Europe’s Growth Challenge, Anders Aslund e Simeon Djankov citino, tra le più ambiziose riforme italiane, il tentativo di restringere il perimetro di esclusiva dei notai allargando agli avvocati il potere di redigere alcuni atti: una misura che non solo aumenterebbe la competizione in Italia, ma la estenderebbe ai professionisti stranieri. Forse, non è un caso neppure che tale intervento, inizialmente previsto dal ddl Concorrenza, sia stato rapidamente soppresso con un consenso bipartisan.

Bisogna, allora, resistere alla tentazione di concentrarsi sul dito (l’efficace lobbying dei notai) ignorando la luna: ossia la trasversalità del fronte anti-liberalizzazioni, con emendamenti identici firmati da esponenti di tutti i partiti. La questione non può che derivare da un problema più profondo. Edmund Phelps, in una indagine sulla progressiva riduzione dei tassi di crescita della produttività in tutto l’occidente, suggerisce che tale fenomeno sia riconducibile a un cambiamento (un regresso) nei valori di riferimento dei cittadini. Quella che il Premio Nobel chiama “la società corporativa” si impone man mano che i valori pre-moderni tornano alla ribalta, scalzando quelli che hanno caratterizzato la modernità. Individualismo, vitalità ed espressione di sé, che hanno reso la società dinamica e innovativa sul piano economico e civile, cedono il passo al comunitarismo, la ricerca di protezione, e la sostituzione del senso di responsabilità con la richiesta di “entitlement” (in italiano diremmo “diritti”, e già questa scelta terminologica è significativa). Il corporativismo, scrive Phelps, “disapprova gli individui con l’ambizione di arricchirsi, chiamandoli `approfittatori’ e detesta i ‘nuovi capitali’ che spiazzano la ricchezza tradizionale. Disapprova la competizione, preferendovi invece l’azione concertata della società attraverso il governo. Più importante, il corporativismo è un attacco all’individualismo, in quanto chiede allo stato di portare armonia e nazionalismo in luogo dell’autonomia dell’individuo nel prendere iniziative e innovare”.

Se le cose stanno così, allora lo scarso feeling del nostro paese con le liberalizzazioni non è solo una ragione della bassa crescita, ma soprattutto l’effetto di un’origine più remota, come ha scritto anche Giuseppe Bedeschi sul Foglio. Le resistenze contro l’apertura del mercato derivano da una ubiqua cultura conservatrice, diffusa a destra, a sinistra e in quel “non luogo” politico che è il grillismo. Non è che l’Italia fatica a crescere perché non si fanno le liberalizzazioni; è che non si fanno le liberalizzazioni (e dunque non si cresce) perché il paese rifiuta l’innovazione e l’apertura. Abbiamo rinunciato agli strumenti culturali della modernità, tornando ad abbracciare una visione feudale dei rapporti economici e sociali. Le riforme, allora, non bastano; possono curare i sintomi ma non le cause. La malattia italiana (e non solo) consiste nel sistematico rifiuto del progresso: una parola, non a caso, desueta. Dice Phelps parafrasando Gandhi che “per cambiare il nostro paese dobbiamo anzitutto cambiare noi stessi. Sarà necessario riportare nelle scuole e nelle case la letteratura di avventura e di esplorazione. Può essere essenziale, che basti oppure no, per ritrovare lo spirito dell’esplorazione e dell’immaginazione”. Dobbiamo ritrovare il gusto del futuro anziché il rifugio nel passato; la voglia di sperimentare anziché la renitenza al cambiamento; la curiosità per l’ignoto anziché il conforto dell’obsoleto.

Negli ultimi decenni, abbiamo rinunciato forse inconsapevolmente a guardare avanti. Lo testimonia la fatica delle riforme, anche se alla fine alcune hanno trovato traduzione (il Jobs Act) e altre stanno lentamente arrivando a destinazione (la Concorrenza). La domanda è se vi siano, in primis da parte dei partiti che se ne sono fatti carico, la volontà, l’orgoglio e la determinazione per tornare a parlare consapevolmente di modernità. La libertà addormentata. La pretesa di proteggere diritti acquisiti non fa altro che inibire la libertà di intraprendere, e quindi crescere.

Da Il Foglio, 30 Giugno 2017

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