101 personalità di tutto il mondo, tra divi hollywoodiani e star dello spettacolo, intellettuali, premi nobel, ex capi di Stato e di governo, politici (tra gli italiani, Nicola Zingaretti e Romano Prodi), hanno firmato un appello ai governi e alle organizzazioni internazionali perché i vaccini Covid-19 siano considerati “bene comune universale, esente da qualsiasi diritto di brevetto di proprietà”.
Tuttavia, non è proclamando il vaccino bene comune che si potrà garantire una migliore diffusione della vaccinazione. E’ vero anzi il contrario.
Sintetizzare un vaccino, anche nei casi più semplici e avviati come quello che stiamo vivendo, rappresenta un forte investimento: di tempo e di soldi.
Al momento, ci sono una cinquantina di molecole in fase di sperimentazione, segno che in molti, tra ricercatori e società farmaceutiche, si sono messi subito e contemporaneamente al lavoro per trovare ciò che tutti stiamo ansiosamente aspettando. Lo hanno fatto probabilmente anche per spirito di solidarietà e per un ritorno reputazionale. Ma se gli Stati si fossero messi d’accordo per eliminare, in via eccezionale e per solo questo vaccino, la sua brevettabilità, è altrettanto probabile che, almeno qualcuno, non ci avrebbe investito le proprie risorse.
Il mercato farmaceutico si è mosso con tempi straordinariamente rapidi non solo per la fase di ricerca ma anche per l’eventuale produzione.
Se i governi volessero fare la loro parte per accelerare la diffusione del vaccino, la strada non è scoraggiarne lo sfruttamento economico, ma garantire che, una volta in commercio, sia equamente distribuito e siano evitate pratiche di nazionalismo vaccinatorio. Questo sì è un problema dove i governi, che rappresenteranno i principali acquirenti del prodotto, potranno efficacemente intervenire, lasciando che ognuno faccia la propria parte, al di là della retorica delle belle intenzioni.
30 giugno 2020