Il voto dei più colti dovrebbe pesare di più alle elezioni? L'urna a due velocità di John Stuart Mill

Così, la Brexit avrebbe forse perso, ma non è una soluzione

9 Agosto 2016

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Fino a poche settimane fa, le democrazia era uno dei pochi tabù dei nostri tempi. Mettere in dubbio il principio una-testa-un-voto significava auto-esiliarsi dal dibattito pubblico. Molto si ragionava, semmai, su come estenderne le frontiere: sanare il «deficit democratico» dell’Ue, sperimentare forme partecipative, esportare istituzioni democratiche dove non ci sono.

Ma non sempre il demos, quando vota, si rivela all’altezza delle aspettative dei democratici. La Brexit è stata la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. Siccome da una parte c’era l’appartenenza al mercato unico con i suoi vantaggi e dall’altra un salto nel buio, l’esito del referendum è stato letto dagli sconfitti come il sintomo della crescente difficoltà di un voto «riflessivo». I «leaver», probabilmente, sentivano di aver perso il controllo sul proprio Parlamento e sui propri confini e hanno votato per riprenderselo.

Le élites novecentesche erano coinvolte in perenni conflitti ideologici. Oggi hanno valori in larga misura omogenei. Per questa ragione interpretano il dissenso non come una questione di diversi valori: ma come una forma di ignoranza. Sembrano dibattiti nuovi, ma non lo sono affatto. Non è nuova nemmeno l’incapacità di escogitare una soluzione convincente. A questo proposito, è interessante rileggere John Stuart Mill. Economista e pensatore politico, Mill fu fra i primi a battersi per il voto alle donne. Nelle sue Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), sostiene il suffragio universale – ma «temperato» dal voto plurimo. «Le persone la cui opinione merita maggiore attenzione devono disporre di un voto più pesante».

Mill concepisce la libertà come autonomia, come possibilità di provare a costruire ciascuno la propria vita a proprio modo. Questa libertà va a vantaggio di tutti, perché una società più creativa è anche più innovativa e più prospera («Quando vi è più vita nelle singole unità, ve ne è di più anche nella massa che compongono», scrive nel saggio Sulla libertà) ma non può essere garantita dal principio di maggioranza. La massa tende a invidiare coloro che fanno cose nuove.

Fra i meccanismi per frenare il pericolo del dispotismo della maggioranza, Mill immagina il suffragio «a peso variabile», che consenta ai più istruiti di contare di più. A questo voto «pesante» si dovrebbe accedere con «esami volontari accessibili a tutti».

Se questa proposta non è mai uscita dai libri, c’è una ragione. Ha un bel dire Mill che «i soggetti di un voto meno influente non dovrebbero sentirsi irritati per questo», e che «solo un pazzo» può offendersi perché «si riconosce l’esistenza di altri con opinioni e aspirazioni superiori alle sue». La società esiste proprio perché ciascuno ha competenze diverse dagli altri: il panettiere ha bisogno dell’idraulico e il sarto del pizzaiolo. Nessuno «si sente irritato» per questo. Ma la vita pubblica è un’altra cosa, e l’idea del suffragio universale implica l’equivalenza del valore delle opinioni. La «competenza» tecnica è un attributo che pretendiamo dal nostro medico o dal nostro idraulico; al più dagli “impiegati” dello Stato, dai poliziotti ai capi di gabinetto. L’indirizzo politico, però, è lasciato alla conta. In una democrazia «presa sul serio», davvero «uno vale uno».

Un secolo e mezzo fa, si pensava che governo popolare ed istruzione di massa sarebbero andate assieme. Per lo stesso Mill, «uno dei principali meriti di un governo libero è proprio quello di educare l’intelligenza e i sentimenti persino degli strati sociali più bassi chiamati a prendere parte alle decisioni». Il suffragio universale avrebbe costituito una sorta di palestra, l’abitudine a prendere decisioni ci avrebbe reso decisori migliori. È andata così forse in Svizzera, dove il frequente ricorso al referendum produce scelte sorprendentemente ponderate. Oggi un po’ dappertutto assistiamo al prevalere del voto istintivo. E questo avviene nelle società più scolarizzate di sempre, dove per giunta tutta l’informazione del mondo è disponibile al costo di un clic.

Forse ad essere sbagliato, ieri come oggi, è il modo d’impostare il problema. Le neuroscienze della politica suggeriscono che i pregiudizi sono molto più radicati di quanto sembra. L’elettore razionale, che legge i programmi e si sposta da sinistra a destra a seconda delle circostanze, è una fantasia. Che si voti «con la pancia» è probabile, capire chi propone cosa, e poi verificare che lo faccia, richiede fatica e tempo. Né i più colti ed informati sono liberi da pregiudizi.

Se non si può cambiare la natura umana per riformare la politica, forse si può ridurre l’ambito delle scelte a maggioranza. Svolte che incidono profondamente sullo status quo (come la Brexit) dovrebbero richiedere super-maggioranze, come avviene in Parlamento per la riforma della Costituzione. Oggi noi eleggiamo chi decide grosso modo della metà del Pil. L’elevato peso dello Stato è un argomento a favore della «competenza» nel gestirlo, ma la percezione che esso costi al cittadino metà del suo reddito consolida il bisogno del controllo. Se vengo tassato così tanto, non posso lasciare che decidano gli altri.

Se lo Stato governasse il 10% del Pil, il populismo farebbe meno paura: perché decisioni erronee o pregiudiziali produrrebbero danni decisamente inferiori. Forse è più semplice convincere il demos a riprendere sovranità sul proprio reddito, accettando una riduzione dei poteri pubblici, che a cedere il passo ai «competenti». Ci pensino, le élites.

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