Immigrati e nuove imprese, la lezione di Boris Johnson

Dopo la chiusura della Brexit, il visto per i talenti che vengono dalle migliori università del mondo

19 Aprile 2022

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Diritto e Regolamentazione Economia e Mercato

Ci siamo abituati a considerare l’immigrazione sostanzialmente un problema politico. Qualche cosa che deve essere «gestito» e quanto più possibile limitato, pena l’esplosione di tensioni sociali distruttive. Chi dice «prima gli italiani», dopotutto, tende a vincere le elezioni. «Prima gli inglesi» è stato uno dei motivi ideologici che hanno determinato l’esito del referendum sulla Brexit.

Non è un caso che il governo di Boris Johnson abbia annunciato di espandere le strutture di detenzione per i migranti «illegali» e un piano per trasferire in Ruanda alcuni richiedenti asilo «per la gestione dell’iter burocratico relativo alle loro richieste». Una misura che ha fatto parlare i critici di deportazione ma ha probabilmente fatto esultare molti sostenitori del premier: finalmente un governo che «fa qualcosa» sull’immigrazione.

Johnson ha dato però anche un segnale in direzione contraria: è infatti nata una nuova categoria di visti riservati a «individui ad alto potenziale», che potranno accedere al mercato del lavoro inglese anche se non hanno già un posto che li attende e portarsi appresso automaticamente la propria famiglia. Gli Individui ad alto potenziale sono persone che hanno ottenuto un titolo di studio in una delle migliori cinquanta università del mondo (le classifiche di riferimento sono Times Higher Education, Quacquarelli Symonds e Academic Ranking of World Universities). Con un dottorato, potranno godere di un visto di tre anni. Con una laurea o master, di due.

Nei mesi scorsi, abbiamo sentito ripetere tante volte, nelle discussioni sul Pnrr, che gli investimenti sono determinanti per lo sviluppo. E’ vero. Ma paradossalmente tutti scommettono su investimenti pubblici in capitale fisico: pensiamo di spingere il Paese su un percorso di crescita posando binari dell’alta velocità o inaugurando «case di comunità» (i centri para-ambulatoriali nei quali il Ministero della Salute vuole concentrare i servizi sanitari di base) o facendo la rete unica delle telecomunicazioni. Si tratta di iniziative con le quali il decisore politico afferma retoricamente la propria superiore lungimiranza rispetto alla miopia del libero mercato, ma gli effetti di lungo periodo sono tutti da verificare. Nel breve, ovviamente, c’è l’auspicato dividendo elettorale: si spera che tanti quattrini possano fertilizzare il consenso nel Paese.

Si tende a dimenticare invece l’investimento in capitale umano. Nel Pnrr, ci sono stanziamenti per l’istruzione ma mancano le riforme che dovrebbero aiutarci a «raddrizzare» il sistema scolastico e quello universitario. Gli ampollosi richiami a premiare il merito sono ormai uno spartito che tutti gli uomini politici sanno suonare. Ma spesso non è ben chiaro che cosa sia il merito, come venga accertato, in che misura coincida con la formazione di competenze utili, che aiutino non a trovare un posto di lavoro ma a partecipare attivamente alla produzione di ricchezza.

Sarà un effetto inintenzionale della saracinesca che la Brexit ha abbassato sulla possibilità di ingresso dei cittadini europei, ma il governo inglese sembro aver cominciato a ragionare sul fatto che c’è una gara mondiale per attrarre talenti. Non solo non è detto che il sistema scolastico e universitario di un certo Paese sia necessariamente il migliore per formare quelle competenze. Ogni tanto molto semplicemente i talenti più rilevanti per fare quel mestiere capita che non nascano all’interno dei patrii confini.

Il limite di questa iniziativa è, per l’appunto, il suo carattere elitario. Tra le prime cinquanta università del mondo, secondo il Times Higher Education, quattro sono in Cina, tre sono in Germania, due in Svizzera, due a Singapore, una in Giappone, una in Svezia, una Francia, una in Belgio: le restanti trentacinque sono tutte fra Stati Uniti, Inghilterra e Paesi del Commonwealth. La porta viene aperta, ma in qualche modo a chi già era sull’uscio.

Al contrario, aspetto più interessante è che i beneficiari del visto potranno anche usarlo per sviluppare un’iniziativa propria: non necessariamente per cercare lavoro all’interno di imprese esistenti o in una istituzione universitaria o di ricerca. Già oggi in Inghilterra una impresa su dieci è l’esito dell’impegno di inglesi di prima generazione. Fra gli immigrati, il 17,2% ha fondato un’azienda o ha scelto l’autoimpiego, fra coloro che nel Regno Unito ci sono nati circa il 10%.

Diversi studi negli scorsi anni segnalavano come ci fosse una notevole differenza fra diversi gruppi: in particolare, gli immigrati provenienti dal Sud Est asiatico dopo il 2001 hanno una scarsa tendenza a essere lavoratori autonomi, che invece è molto pronunciata fra gli europei dell’Est. Ci sono delle ambiguità: è un’impresa sia una kebabberia che una startup tecnologica e la tendenza all’autoimpiego può anche riflettere una minore integrazione nella società britannica.

Detto questo, anche le kebabberie hanno tutto il diritto di esistere, se soddisfano una domanda delle persone. Il genio imprenditoriale, come sappiamo bene, non è sovrapponibile al rendimento scolastico e non necessariamente si forma nelle migliori università.

Ben venga l’apertura all’immigrazione di qualità. Un giorno ci accorgeremo anche che la prima qualità dell’immigrazione è quella voglia di rischiare che una persona pronta a lasciare casa propria per andare incontro all’ignoto porta con sé. E che nelle condizioni opportune può diventare il lievito che fa crescere un Paese.

da L’Economia – Corriere della Sera, 19 aprile 2022

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