Siamo diventati servili, noi occidentali amanti della democrazia, perché abbiamo “rinunciato all’autonomia in cambio di benefit”, ci dice Kenneth Minogue, filosofo ottantenne dagli occhi azzurri vispi nascosti da folte sopracciglia bianche. Siamo diventati tutti “vulnerabili”, anzi, ci piace dirci tutti vulnerabili, perché così lo stato viene ad aiutarci, ci dà soldi, benefici, sostegno. Ti protegge”. E lo stato, da parte sua, ammanta di “altruismo e correttezza” il suo sostegno, ci “deve” assistere, è un suo dovere: così si arriva alla tirannia delle buone intenzioni, la tirannia del governo “buono”, del socialmente utile, del socialmente giusto (meglio non dire mai “sociale”, Minogue è convinto che buona parte dei nostri mali sia dovuta al “fondamentalismo sociologico”). “L’essenza della mente servile è la disponibilità ad accettare direttive esterne in cambio della rimozione dell’onere di esercitare una serie di virtù come la parsimonia, l’autocontrollo, la prudenza e la stessa civiltà”, spiega Minogue nel suo ultimo libro, “La mente servile” appunto, appena pubblicato in Italia da Ibl Libri. La prefazione è di Franco Debenedetti – ieri c’è stata la presentazione alla Residenza Vignale, a Milano, organizzata dall’Istituto Bruno Leoni, in un dibattito dal titolo “La crisi europea: debito, democrazia e demografia” – e ha il merito di calare la riflessione di Minogue nell’attuale crisi europea.
Il filosofo, che oggi è professore emerito di Scienza politica alla London School of Economics, aveva scritto all’inizio degli anni Sessanta “La mente liberal” (in Italia è stato tradotto con un ritardo di quasi cinquant’anni) in cui metteva a fuoco il problema dell’illusione della libertà: “Abbiamo iniziato a credere che più libertà significasse più potere”, poi questo potere è stato consegnato allo stato. Che cosa è successo in mezzo, com’è che dall’illusione si è arrivati al servilismo? “E’ successo che il welfare state è diventato dominante”. Eccoci qui, noi europei servili, in piena crisi di debito dopo aver “affidato il nostro ordine morale allo stato”. ‘Ti sorprende – dice Minogue – che di fronte al fallimento di questo modello, in cui il welfare state non è più né economicamente né moralmente sostenibile, il presidente americano Barack Obama ne venga attratto”. “Lunacy”, dice Minogue, una pazzia. Così come è piuttosto bizzarro che “nel momento in cui la democrazia mostra la sua debolezza noi pensiamo di poterla esportare in giro”. “Paradox”, dice Minogue, un paradosso.
La giustificazione a tanto impegno dei governi è la “fairness”, l’equità (“ma ce l’avete voi un modo per tradurre questa parola? E’ un termine così anglosassone”, ironizza Minogue. Anche per “accountability” non c’è una traduzione, a dire il vero), come ripete sempre lo stesso Obama. ‘Ma cos’è equo? – chiede Minogue – E’ equo ritenere proprio qualcosa che un altro ha prodotto?”. La redistribuzione, grande affare degli stati, è un altro esempio del servilismo, e della fine della centralità dell’individuo: “Arrivati a un certo punto, non c’è più incentivo a produrre ricchezza”. Il punto di non ritorno è la tassazione eccessiva, la caccia al ricco, attività comune sia in Europa sia negli Stati Uniti.
L’integrazione non è la soluzione
“La mente servile” si apre così: “Il quesito che mi pongo è se la vita morale sia compatibile con la democrazia”. Qual è la risposta? Minogue non è ottimista, dice che lo stato che vuole moralizzare – e lo stato vuole farlo sempre, “pensa di avere un ideale politico alto”, migliore rispetto a quello dei cittadini – non è compatibile con la libertà. Ma ora che ci siamo infilati in questo caos, ora che il welfare state è tra noi, sarà pure uno zombie, ma smantellarlo non pare tra le priorità, come se ne esce? “Per l’Europa certo l’integrazione non è una soluzione. Non lo è mai stata, gli europei sono diversi tra loro e più tendono a mettersi insieme meno bene stanno”. Le tendenze alla disintegrazione sono forti, in effetti, in tutta Europa. Ma per la soluzione pratica bisognerebbe iniziare con i fondamentali, “tipo evitare di credere alle promesse che non possono essere mantenute”, come fanno spesso i leader europei nei loro concistori. Poi bisognerebbe tornare al significato della libertà, al suo valore intimo potente e individuale, che ha a che fare con la responsabilità personale. Un’exit strategy concreta non c’è, o almeno non è compito di Minogue fornircela, “non voglio cambiare il mondo, voglio capirlo”, ci dice. Ma laddove le vie d’uscita possono essere fantasiose, come nella “Rivolta di Atlante” di Ayn Rand, questo è il momento di “going Galt”: smettere di essere servili con uno stato invasore, e scomparire.
Da Il Foglio, 4 ottobre 2012