L'indipendenza di Fed e Bce alla prova del caro-prezzi

Le due istituzioni hanno ottenuto e difeso l'autonomia in nome della stabilità monetaria. Il meccanismo, però, ora rischia di incepparsi

26 Settembre 2022

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Politiche pubbliche

Nel 1989, la Nuova Zelanda cambiò lo statuto della Banca centrale, rendendo il governatore personalmente responsabile nel caso in cui non avesse rispettato i target di inflazione concordati col ministro delle finanze. Negli anni Ottanta i neozelandesi avevano sperimentato alti tassi di inflazione (in alcuni anni attorno al 15%)

Stava cominciando l’epoca d’oro dell’indipendenza delle banche centrali. L’alta inflazione era stata compresa anche come un effetto della costante interferenza della politica nella politica monetaria. In un recente articolo per il Journal of Economic Perspective, Harris Dellas e George S. Tavlas hanno ricostruito il dibattito su regole contro discrezionalità in ambito monetario. La stagflazione degli anni Settanta distrusse la convinzione per cui elevati tassi di inflazione erano necessari per avere alti tassi di occupazione: la cosiddetta curva di Phillips. Al contrario, alcuni importanti lavori teorici portarono legislatori e banchieri centrali a riflettere sul tema della cosiddetta «incoerenza temporale»: per esempio, la politica economica annunciata da un governo può non essere credibile, perché si sa che in determinate condizioni quello stesso governo potrebbe avere interesse a fare tutt’altro, e non ci sono vincoli che Io obblighino a mantener fede alle sue premesse.

E’ all’epoca che prende piede la riflessione sulle aspettative razionali. Quando l’occupazione sembra contrarsi, i banchieri centrali tenderanno a dare delle fiammate d’inflazione, sperando così di sostenere il mercato del lavoro. Il guaio è che gli operatori economici sanno che i banchieri centrali, quando i tassi d’occupazione calano, tendono a ricorrere all’inflazione e dunque ne anticipano le mosse. Morale della favola: i guadagni attesi in termini di occupazione non ci saranno, perché gli agenti economici hanno previsto il comportamento dei «controllori» della moneta.

Da quella temperie culturale e dall’esperienza degli anni Settanta è venuta la grande spinta a sostituire la discrezione del banchiere centrale con delle regole. Queste possono essere regole passive: si decide che la massa monetaria deve crescere a un certo tasso (Milton Friedman a lungo indicò un obiettivo fra il 3 e il 5%) che dovrebbe assieme soddisfare la nuova domanda di moneta per nuovi scambi e transazioni e mantenere costante il livello dei prezzi. Oppure possono essere regole «attiviste»: per esempio, un chiaro obiettivo di inflazione, che per essere «centrato» richiede di mettere mano costantemente alle leve che la Banca centrale ha a disposizione.

La Bce è il più «indipendente» degli istituti di emissione: sia per il momento nel quale è stata fondata, sia perché essere la banca di diciannove Paesi dà margini di libertà molto più ampi, che essere la banca di un Paese solo. E’ una istituzione che avrebbe un solo obiettivo: mantenere l’inflazione al 2%. Eppure, sono anni che non ce la fa: prima non raggiungevamo il tasso del 2%, ora l’inflazione è cinque volte tanto. La stessa retorica è cambiata e mentre fino a pochi anni fa le politiche monetarie tendevano a considerare la aspettative razionali degli operatori economici, dando loro in qualche modo una chiara indicazione rispetto al proprio senso di marcia, ora sostengono che aggiusteranno la rotta «a seconda dei dati». Siamo alla discrezionalità più pura.

Bisogna però fare molta attenzione. L’indipendenza delle banche centrali si è affermata come risposta ai problemi emersi in un periodo di inflazione elevata. L’assunto era che fosse la politica che impediva ai banchieri centrali di far bene il proprio lavoro e che schermarli da influenze indebite sarebbe stato sufficiente a garantire che operassero nel migliore dei modi.

Queste istituzioni sono, comprensibilmente, percepite come lontane da parte dei cittadini. C’è tutta una letteratura, di segno complottista ma non solo, che vede nell’indipendenza della Bce uno schiaffo alla sovranità dei singoli Paesi. Gli stessi politici italiani, quando negli anni scorsi sono stati costretti a fare qualche riforma impopolare, ne hanno addossato la colpa sì all’Europa, ma ancor più all’euro: cioè alla Bce. Simmetricamente, ogni turbolenza nei mercati diventa un’occasione per chiedere alla Bce di intervenire. Le domandiamo perfino di occuparsi del cambiamento climatico!

L’indipendenza delle banche centrali non è scritta nella pietra e nemmeno il Trattato può difenderla, se le persone si convincono che sia un problema e non un vantaggio.

Questo, oggi, può accadere. Le banche centrali rappresentano il fior fiore dell’alta burocrazia, impiegano economisti con dottorati nelle migliori Università, incarnano un’idea di «merito» e dai loro ranghi vengono estratti ministri e primi ministri. La loro libertà d’azione è anche autoreferenzialità: la politica monetaria, del resto, è materia troppo astrusa per i comuni mortali. I comuni mortali, però, si accorgono che l’inflazione è tornata nelle loro vite e un giorno ne chiederanno conto a quelle istituzioni sulle quali hanno rinunciato a esercitare un controllo democratico, in. nome della stabilità monetaria. Se esse non riescono a garantire stabilità monetaria, che senso ha continuare a garantirne l’indipendenza?

La Presidente Lagarde ha detto di «assumersi la responsabilità» dell’elevato tasso d’inflazione ma è più che altro una dichiarazione a favore di telecamera. Non si dimetterà. Ma se lo facesse, darebbe plasticamente prova che per lei e per la Bce responsabilità non è solo una parola. Ogni tanto le istituzioni si difendono così.

Da L’Economia del Corriere della sera, 26 settembre 2022

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