Inghilterra, che progresso!

XIX secolo. David Cannadine ripercorre gli anni in cui il Paese conobbe un'enorme crescita demografica, costruì l'alfabetizzazione di massa, ampliò la partecipazione politica

30 Luglio 2018

Domenica-Il Sole 24 Ore

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

L’Ottocento è stato il secolo del progresso. Se è esagerato sostenere che prima non c’era nemmeno l’idea, poco ci manca. Il progresso, parafrasando quel tale, non è un pranzo di gala. Benefici ad ampio raggio, nel medio periodo, possono essere preceduti dal peggioramento delle condizioni di vita di alcuni gruppi sociali, nel breve. Se le buone notizie di rado hanno nome e cognome, le cattive ce l’hanno sempre. Anche per questo, il secolo del progresso è il secolo delle rivolte contro il progresso: e questo è vero soprattutto nel Paese del progresso, quell’Inghilterra dove nacque e attecchì la Rivoluzione industriale.

La grandezza è sempre piena di contraddizioni. Contraddizioni che passa in rassegna, nessuna esclusa, David Cannadine, uno dei maggiori storici britannici, con questo suo “Victorious Century”. È un grande affresco dell’Ottocento inglese, un secolo lungo che Cannadine fa incominciare con l’Atto di Unione che fuse Regno d’Inghilterra e Regno d’Irlanda (1800) e concludere nel 1906, con la strepitosa vittoria elettorale dei liberali guidati da Henry Campbell-Bannerman.

Cannadine scrive una storia dove la passione per le sfumature prevale su quella del racconto. Ha scarsa simpatia per la storiografia Whig, «incorreggibilmente ottimistica», per l’idea che «la storia degli ultimi 160 anni del nostro Paese è essenzialmente la storia del miglioramento fisico, morale e intellettuale» (Macaulay). Non risparmia al lettore tutte le fonti letterarie, da Dickens a Disraeli, che dipingono un’industrializzazione grigia e opprimente, Londra come la Mordor di Tolkien, l’assenza di misure igieniche semplicissime e fondamentali che determina «la vetta più alta e visibile della nostra attuale miseria sociale» (Engels). Eppure, «il Regno Unito era una nazione industriale nella quale l’industria rimase l’occupazione di una minoranza» per lunga parte del secolo. Le macchine davvero “inventarono” il proletariato: nel senso che consentirono una crescita demografica senza precedenti. Alla fine del “secolo vittorioso” ci sono trenta milioni di inglesi, all’inizio erano sette. Gli standard di vita migliorano per tutti, soprattutto nella seconda metà del secolo. Se prima di allora l’economia britannica, come tutte le altre, aveva vissuto in una sorta di “stato stazionario”, tassi di crescita fra l’1 e il 3% del Pil all’anno diventano la norma. L’alfabetizzazione di massa è una lunga conquista, ma si comincia a osservare «una “cultura stampata” che era probabilmente la migliore al mondo». Negli anni Trenta si vendono tre milioni fra giornali e riviste nelle isole britanniche, nel 1850 già il doppio.

Cannadine racconta al lettore le palpitazioni della politica di Palazzo, l’andamento del pendolo fra Whig e Tory, e poi fra liberali e conservatori, piccole e grandi vittorie di Palmerstone, Peel, Disraeli e Gladstone. Ma anche la più complessa storia sociale, l’ampliamento della partecipazione politica con movimenti come i cartisti e la Lega contro i dazi sul grano, lotte e speranze del movimento dei lavoratori. Eppure «in termini di autorità e istituzioni di governo, la Gran Bretagna del Diciannovesimo secolo risultò eccezionalmente stabile tra tutte le nazioni del mondo». Non c’era davvero «alcunché di preordinato o inevitabile in questa stabilità». Ma questa stabilità dice qualcosa sulle istituzioni inglesi, come lo dice il fatto che i tre primi ministri più famosi del secolo sono due figli d’industriali che hanno saputo raggiungere il traguardo della proprietà terriera (gli “anfibi” Peel e Gladstone), e un ebreo sefardita, avvocato per caso e scrittore per vocazione (Disraeli). Ciò ha qualcosa a che vedere con il trionfo della nuova economia industriale.

Una delle “vittorie” di quei cent’anni è l’affermazione di nuovi ceti, le classi medie industriose e “dissenzienti”, che vivono di mercato e pregano al di fuori della Chiesa anglicana. Se l’Ottocento è ancora fra noi sotto molti aspetti, quanto distante ci riesce lo zelo, l’entusiasmo religioso dei suoi protagonisti. William Gladstone voleva trovare un posto per Omero, una delle sue tante passioni, nella storia della cristianità, e passò la prima parte della sua lunghissima carriera a ruminare sul rapporto fra Stato e chiesa. L’ostilità verso i “papisti” era ancora diffusa, ma viene loro concessa libertà di partecipazione politica. Inventori e industriali sono in larga misura “non-conformisti”, restare fuori dalla Chiesa d’Inghilterra significa a lungo anche non potere frequentare le università, e forse questo avvicina al sapere più pratico ingegni brillanti. Anche prima dell’abolizione dei dazi sul grano, il successo editoriale della “Ricchezza delle nazioni” di Smith contribuisce a forgiare le politiche economiche: William Huskisson, negli anni Venti, già aveva cominciato a ridurre e rimuovere dazi e barriere alle importazioni. Ma, nel complesso, non si può dire che la domanda d’intervento pubblico si sia ridotta: anzi è andata crescendo con la complessità delle produzioni.

Solo che a gestirla era una classe politica spesso prudente e che sembrava aver capito che il settore privato, a cominciare da quei treni a vapore che accorciano le distanze e allargano il mercato del lavoro, stava cambiando il mondo. Il progresso è pieno di contraddizioni ma il modo migliore perché queste si risolvano è dare tempo al tempo. È forse questa la grande lezione del “secolo vittorioso”.

David Cannadine, Victorious Century: The United Kingdom, 1800-1906, Penguin, Londra, pagg. 624, $ 40

Da Domenica-Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2018

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