A suo modo, è veramente colpa del neoliberismo. O meglio, di fenomeni che sono associati alla globalizzazione degli scambi e che in qualche misura ne dipendono. I miglioramenti nei trasporti e nelle comunicazioni, che ci hanno consentito di moltiplicare le relazioni di scambio fra imprese e persone in tutto il globo, aiutano a stabilire interconnessioni molto più strette fra le classi dirigenti. Da sempre i potenti da un lato, gli intellettuali dall’altro, sono stati più interessati al lavoro dei propri simili in un altro paese di quanto non lo fossero altre categorie di persone. Ma le occasioni in cui potevano incontrarsi sono restate a lungo limitate, la loro corrispondenza correva sui binari dei treni, il linguaggio del potere e dell’influenza è sempre stato un esperanto ma la tecnologia consentiva di utilizzarlo solo in rare occasioni. L’esperienza dell’incontro con persone meno affini dal punto di vista delle idee e delle responsabilità era in un certo senso inevitabile. Questi incontri alimentavano la vanità degli uomini politici, riveriti dai sudditi, e nutrivano il risentimento degli uomini di pensiero, mai considerati quanto vorrebbero dalle persone comuni.
Negli ultimi anni, la facilità di contatto si è moltiplicata. Questo è senz’altro un bene, sotto molti punti di vista. La generazione Erasmus pretende che quanto ha scoperto funzionare altrove, funzioni anche a casa sua – o così speravamo. Questa sorta di prossimità non territoriale ha però stimolato l’emergere di un autentico groupthink delle classi dirigenti. Il ruolo giocato dai social, in questo senso, è cruciale. Un sociologo americano, John Robb, sostiene che, producendo le innovazioni tecnologiche un cambiamento nella raccolta e nell’elaborazione dei dati (“informazioni”, “fatti”), esso a sua volta determina smottamenti nella capacità delle comunità umane di dare un senso al mondo che sta loro attorno e, quindi, di prendere decisioni. In quest’ottica, collega l’invenzione della stampa alla Guerra dei trent’anni. E’ facile rispondergli che una correlazione non è una causa. Ma altri hanno notato correlazioni non troppo diverse. Per esempio, fra innovazioni massmediatiche, aumento della partecipazione alla vita politica (ondate di democratizzazione) e momenti se non autoritari almeno “populisti”, qualche legame pare ci sia.
Nel nostro mondo, molta attenzione è stata dedicata (dalle élite) al rischio che i social diffondano “fake news” fra quanti non fanno parte dell’élite medesima. L’ipotesi su cui si innesta tutta la riflessione contemporanea sulle “fake news” è che persone poco allenate nell’uso del proprio senso critico possano finire vittime di bugie create ad arte che diventano “virali”. Il problema esiste, come esisteva prima dei social media: che si trattasse di propaganda politica o della cura Di Bella. Ma la pandemia ci ha dimostrato che esso ha dimensioni più modeste di quanto previsto, al punto che viene da chiedersi se non abbiamo esagerato nel gridare al lupo. Gli esiti più temuti e tragici (il fatto che circolassero “cure” improvvisate e in realtà letali) sono stati assai pochi, perlomeno nel nostro paese, nonostante la virulenza (perdonate la battuta) della discussione italiana, polarizzata e polarizzante come forse nessuna. Le vittime delle “fake news” virologiche si contano sulle dita di una mano, in uno dei paesi con più alta mortalità da Covid19.
Invece un’attenzione scarsa o nulla si presta al ruolo che giocano i social per le élite, che pure ne sono evidentemente (per reddito, consuetudine con la parola scritta, alfabetizzazione informatica) fruitori massicci. I social sono uno strumento potentissimo di omologazione delle classi dirigenti, o per meglio dire delle diverse bande che le formano. Permettono di sapere in presa diretta “come la pensa” il mio omologo americano o francese. Consentono di crearsi un seguito (il numero di follower conferisce una nuova pienezza alla nostra vanità) e simmetricamente interagire, tendenzialmente blandendolo, coi nostri guru di riferimento. Le classi politiche occidentali si trovano non solo ad affrontare una situazione economica “sincronizzata”, come non capitava loro forse dalla fine dell’ottocento. Ma anche una opinione pubblica che tende a convergere sulle medesime parole d’ordine con una rapidità che in passato era impensabile. In questo, si dirà, di per sé non c’è nulla di male. Anzi. Non sono forse anni che le stesse classi dirigenti invocano azioni “coordinate” fra diversi paesi? Non è forse un bene, se non se ne parla più solo dal lato dell’offerta politica, ma anche da quello della domanda?
Fino a un certo punto. L’omologazione riduce lo spazio dell’eccentricità. La politica si confronta con problemi la cui soluzione non è sempre immediatamente chiara, e non è detto che quella che sembra ragionevole ai più sia necessariamente quella “giusta”. La concorrenza istituzionale, il fatto che sia preservato lo spazio per fare “esperimenti”, ci ha lasciato procedere per tentativi ed errori (alcuni disastrosi) nel gioco non semplice di prendere le misure alla realtà. Molte delle soluzioni che si rivelano, a posteriori, azzeccate, sono invise alle classi dirigenti. I grandi innovatori della politica, di solito, sono outsider, vengono dal di fuori dei circuiti riconosciuti e anche gli establishment più avveduti e lungimiranti, quelli che riescono a cooptare i loro concorrenti, faticano a digerirli. Perché gli esperimenti avvengano, però, è necessario sia che si possano fare (che una comunità politica possa compiere scelte autonome) sia che si vogliano fare (che una classe dirigente consideri la possibilità di fare diversamente da tutti gli altri).
Guardiamo però ai circuiti della pubblica opinione, perlomeno nei paesi occidentali. Essi sono formati da persone che tendono a reagire allo stesso modo a stimoli analoghi. Vedono le stesse serie tv, leggono gli stessi due giornali (per giunta pubblicati dallo stesso editore), seguono gli stessi account Twitter. Ciò si innesta su altri elementi biografici convergenti. Le nostre chattering classes trovano spesso i loro leader intellettuali, gli influencer delle classi dirigenti, in persone che hanno raggiunto l’eccellenza nel loro campo accademico o professionale. A differenza che cinquanta o anche solo vent’anni fa, costoro tendono però a emergere all’interno di discipline segnate da una divisione del lavoro molto più ramificata. Sono, nel limite del loro specifico oggetto di studio, sicuramente più avvertiti e competenti di quanto non fossero i loro predecessori. Ma la concentrazione in uno specifico campo di ricerca va quasi sempre di pari passo con uno sguardo più ristretto. Il politico, e con lui l’intellettuale che di politica si occupa, è uno specialista del generale: deve tenere sotto controllo temi e questioni diverse, è inevitabile che non le padroneggi mai fino in fondo. Quando però l’intellettuale che si occupa di politica è uno specialista vero, inevitabilmente le sue conoscenze a più ampio raggio sono più rarefatte. Il guaio è che l’ampio raggio è il terreno, inevitabile, dello scontro politico: che prima riguarda la pandemia, poi l’inflazione, infine la guerra. Questa debolezza si accompagna a una intensità emotiva senza precedenti.
L’intellettuale connesso coi suoi pari attraverso i social di norma non esibisce distacco o freddezza. Anzi da sfogo in pieno alla sua passionalità, è militante come non mai, non è più “organico” a un partito politico ma lo è a un “network” di simili, legati insieme da preferenze politiche ossessivamente espresse e ripetute anche senza legami formali o geografici. Proprio perché questi gruppi intellettuali sono composti da specialisti, il credo esibito dal bravo scienziato sociale, che pensa di essere libero da pregiudizi quando si applica al suo programma di ricerca, impone loro di non ritrovarsi su motivi ideologici. L’intellettuale tribunizio, oggi, fatica a dichiararsi “liberale” o “socialista”. Resta genericamente “di sinistra”: perché l’intellettuale è di sinistra o non è. E tuttavia, siccome la sua esperienza e la sua ambizione sono quelle di sottoporre continuamente a vaglio critico le conoscenze acquisite, non può accettare come etichetta quell’insieme di euristiche che riconduciamo a questa o quella famiglia del pensiero politico.
E allora, che cosa li unisce? Paradossalmente l’emotività, lo sdegno, le preoccupazioni. Siamo, nel mondo occidentale, tutti preoccupati per qualcosa. Queste preoccupazioni si declinano tipicamente in “questioni di giustizia”: dalla giustizia sociale a quella “climatica”. Le questioni di giustizia sono inquadrate analiticamente da pochi filosofi che vi si applicano. Per gli altri, la giustizia è una specie di richiamo della foresta. Il suo eterno compagno è lo sdegno. Gli intellettuali contemporanei sono continuamente sdegnati. E’ qui che si consuma il loro vero tradimento: anziché essere ambasciatori di un tentativo di riflessione più razionale, si indignano. Fare parte di uno o dell’altro di questi gruppi significa esibire un certo mix di indignazioni. A esse corrisponde la modulazione di un messaggio che riesce come non mai ad amplificarsi velocemente e a influenzare la politica stessa. Le opinioni pubbliche si sono dimostrate potentissime, rispetto ai governi, legittimando operazioni che fino all’altro ieri sarebbero parse istituzionalmente forzate o perlomeno socialmente controverse: l’operazione di affidare armamenti a truppe mercenarie perché le portino in Ucraina (senza domandarsi se ci arrivino davvero o meno, e in che misura), il tour virtuale di un capo di governo di un altro paese nelle aule parlamentari. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Invece gli intellettuali tifano e inducono i loro seguaci a tifare, urlano e inducono i loro seguaci a urlare. Il mezzo non li aiuta. A 250 caratteri si risponde con altri 250 caratteri e gli spazi limitati da un lato, l’immediatezza della risposta dall’altro, fa sì che molto spesso la risposta sia una variazione sul tema del vaffanculo.
Siamo la società più alfabetizzata e colta di sempre, ma abbiamo il dibattito pubblico più superficiale di sempre. Le nostre superstar intellettuali hanno un “mercato” che i loro predecessori potevano solo sognarsi, ma seguono pensieri brevilinei. Nella società la più vecchia che si ricordi, il discorso pubblico si compiace di rimanere infantile.
Questi paradossi hanno a che fare coi mezzi che utilizziamo per scambiarci idee e sono amplificati dalle dimensioni “globalizzate” della discussione intellettuale. Sdegno e preoccupazioni sono il biglietto d’ingresso da esibire per essere parte di questi gruppi che “fanno” l’opinione pubblica, e un po’ se la cantano e se la suonano. Nessuno ne discute il curriculum. Ma gli ambiti in cui si forma l’opinione delle classi dirigenti non sono quelli della divisione intellettuale del lavoro, bensì la piazza dove gli specialisti si incontrano, si annusano a vicenda, e si dividono in bande. Non è un processo nel quale si condividano conoscenze particolari, ciascuna appannaggio di un certo gruppo. Sono invece contesti nei quali si prova l’ebbrezza di dividersi.
L’antropologo Robin Dunbar ha suggerito che il nostro cervello sia fatto per farci mantenere relazioni significative con un numero ristretto di persone, al massimo 150. I social da una parte simulano situazioni di relativa prossimità (le nostre comunicazioni sono tutte informali) ma dall’altra sono un grande megafono. Questo ci porta a parlare fra estranei, a cooperare nel grande gruppo, come lo faremmo fra persone che hanno reciproca consuetudine, in gruppi di dimensione assai più piccola. Se ciò è vero, la natura stessa della comunicazione ne esce stravolta. Per esempio questo potrebbe spiegare perché la discussione tende a vertere non su argomenti razionali ma su preoccupazioni. Esse sono di natura diversa ma tutte legate a questioni ricostruibili in termini di giustizia e in realtà di giudizio morale. L’interruttore è buono/cattivo. E’ difficile trovare chi sia concerned con l’utilità di una certa politica, o peggio ancora con la sua prudenza. La prudenza, nel gioco dei buoni contro i cattivi, diventa il marchio dei vili. L’utilità quello dei gretti.
E’ un grande spettacolo, quello in cui siamo immersi, e di per sé sarebbe anche divertente. Se non fosse per due ragioni. La prima è che stiamo crescendo una generazione che è pronta a indignarsi per tutto e a darsele di santa ragione, ma per cui la performance, l’efficienza, è un disvalore. Le ragioni dell’“equità” militano contro di essa. Per non dire della prudenza, che è conservatorismo travestito: quanto di peggio innanzi all’impellente necessità di cambiare il mondo, di migliorarlo e raddrizzargli le gambe, whatever it takes. Whatever it takes, costi quel che costi, è scritto sulla porta degli spogliatoi degli Sharks in “Any Given Sunday” di Oliver Stone. Nel football americano per vincere occorre guadagnare più terreno possibile, senza pensare ad altro, neanche a salvarti l’osso del collo. Ma la vita non è una partita di football.
La maggior parte dei problemi politici potrebbe essere affrontata con empirismo, nella consapevolezza che non esistono soluzioni ma solo trade off. Se do a Tizio, tolgo a Caio. E invece ormai abbiamo scelto di soppesare più costi e benefici. Se la leva della decisione politica è lo sdegno, se è l’indignazione morale il motore dell’azione politica, come è possibile parlare di vil danaro? Perché ragionare sui costi? Per questa generazione, inquadrare continuamente la politica con criteri morali significa rifiutare, a priori, il confronto con l’avversario. Il dibattito, quando c’è, non è finalizzato a una forma di compromesso, a raggiungere un accordo perlomeno su alcuni generalissimi punti condivisi. Serve, al limite, per offrire al pubblico il gusto dell’umiliazione dell’avversario intellettuale. L’impressione è che abbia ragione un brillante analista come Martin Gurri: l’opinione pubblica, intesa come riflessione di una comunità politica sopra se stessa, non esiste più, sostituita da una serie di pubblici tribalizzati e l’un contro l’altro armati.
La seconda per cui questo spettacolo non è divertente è l’interconnessione fra questi dibattiti e le decisioni pubbliche. Il commento istantaneo può diventare virale, trascinarne con sé miriadi, determinando così la strada presa dalle decisioni stesse. Discussioni emotive producono decisioni emotive, nel senso che le legittimano. Molto si è scritto, negli ultimi anni, di politiche dell’identità. Si è detto che la politica è e sarà sempre più divisa fra cosmopoliti e radicati, fra anywheres e some wheres per usare le fortunate categorie di David Goodhart. Le classi dirigenti si identificano col primo gruppo: un gruppo che è parso perdente, con l’elezione di Donald Trump e con la Brexit, ma che si legittimava con il proprio sangfroid, con la propria razionalità innanzi all’emotivismo degli elettori. Nell’Inghilterra rurale si teme che l’appartenenza all’unione europea porti a un’invasione di idraulici polacchi, di immigrati che ci rubano il lavoro. A Londra si sa che i polacchi sono esseri umani come noi e si sa che, anche nella più tecnologica delle società, gli idraulici servono.
Questa autolegittimazione sulla base di credenziali illuministiche, diciamo così, funzionava prima del Covid. Ma adesso? Nella pandemia, esponenti delle classi dirigenti e del gruppo dei “competenti” hanno condiviso e diffuso paure ben al di là della ragionevole preoccupazione all’incontro con una malattia sconosciuta. Sono stati i partiti dell’establishment e le classi politiche all’apparenza più devote alla scienza, a imporre regole totalmente prive di qualsiasi retroterra scientifico. Con l’invasione dell’ucraina, ben pochi si sono dati un contegno kissingeriano.
L’idea che le classi dirigenti internazionali siano legittimate dalla loro superiore familiarità con il pensiero critico e razionale vacilla. Attenzione: la questione non è il cosa, il merito delle loro posizioni, ma il come. La qualità dei loro argomenti e i toni usati per esprimerli non sono diversi da quelli dei cosiddetti “populisti”. Anzi. Forse negli argomenti dei “populisti” c’è almeno un richiamo al particolare, all’idea (sempre ambigua) di un “interesse nazionale” che prima che essere “nazionale” è “interesse”. L’interesse è una categoria laica e che soprattutto presuppone un certo grado di possibile oggettività, la convergenza su fattori obiettivi. Paradossalmente, a ciò oggi le classi dirigenti non oppongono l’idea di un interesse più correttamente inteso, ma al contrario affermazioni moraleggianti e moralistiche, appelli a un bene “superiore”, esortazioni all’equità. E’ incredibile che siano i populisti a riappropriarsi della categoria dell’utile, e invece i competenti a toccare i tasti del giudizio morale, eppure è così.
La psicologia cognitiva, negli ultimi decenni, ci ha implacabilmente ricordato che mentre il mondo nel quale viviamo è molto diverso da quello soltanto di duecento anni fa, il nostro cervello è sempre quello di diecimila anni fa. Nel nostro passato evolutivo, abbiamo sviluppato alcune scorciatoie cognitive per venire rapidamente alle prese con un ambiente molto più ostile di quello che oggi conosciamo. Di lì vengono quei bias cognitivi che appaiono così dissonanti rispetto alla nostra esperienza di vita. Abbiamo paura del diverso perché, quando vivevamo in comunità al massimo di un centinaio di persone, il diverso era di solito mosso da intenti predatori. I nostri istinti innati puntano in quella direzione e solo il contesto sociale di una società aperta e complessa, nella quale l’incontro col diverso è una ricchezza, ci suggerisce di metterli sotto controllo. Le nostri classi dirigenti questo lo sanno bene e lo ripetono con convinzione.
Ma non significa che siano prive di bias. Anch’esse, come tutti, sopravvalutano la propria conoscenza e sminuiscono quella altrui. In particolar modo, sono convinte che decisioni prese da un ristretto gruppo di “competenti” siano sempre le migliori. Solo che in una società aperta e complessa la conoscenza non passa per il curriculum del decisore, ma per processi che la setacciano.
Come tutti, gli esponenti delle classi dirigenti sono inclini al bias del finalismo: a pensare che gli eventi di oggi siano l’esito inevitabile di un progetto che esisteva anche ieri. Nei populisti, il finalismo è l’anticamera del complottismo. Fra i competenti e i colti, allo stesso modo il finalismo autorizza a proporre nessi causali di evidente sapore pseudo-scientifico.
Al pari di tutti gli altri, anche gli esponenti delle classi dirigenti sovrappongono alla complessità degli attuali aggregati di individui la rassicurante semplicità dei piccoli gruppi fra cui siamo cresciuti. La guerra diventa una faccenda fra “noi” (mezzo miliardo di europei messi tutti nello stesso mazzo) e Putin, un singolo villain da fumetto. Volete voi la pace o accendere il condizionatore? “Chi pensa ai bambini?”. La pandemia, a dispetto dei peana alla complessità, era diventata a sua volta “una guerra” e il Covid una sorta di Napoleone da bloccare sul campo di battaglia. Semplificazioni così rozze dovrebbero appartenere alla stampa più dozzinale e partigiana – e invece sono il sale del racconto dei media apparentemente più colti e analiticamente pretenziosi.
Che gli esperti siano esseri umani come tutti gli altri non è una grande scoperta. Ma in qualche modo è un dato di realtà che essi tendono a rifiutare e tanto più quando la loro autolegittimazione, l’erogazione della tessera del club, si fonda sulla condivisione dei motivi di sdegno. Il nostro sdegno, la nostra irritazione, pensano, dev’essere diversa da quella degli altri.
Una democrazia liberale, per funzionare in modo passabile, non può fare a meno di una pubblica opinione informata. I grandi liberali della generazione della Rivoluzione francese e di quella successiva pensavano grossomodo che l’istruzione pubblica avrebbe reso tutti in grado di leggere le gazzette e di partecipare in modo consapevole alla discussione pubblica. Tanto sarebbe bastato perché il popolo non accettasse più di essere carne da cannone nel gioco della politica di potenza. La Prima guerra mondiale e tutto il Novecento hanno dimostrato la fragilità di quella illusione.
Oggi la pubblica opinione “balcanizzata”, con le sue discussioni in presa diretta, supera in emotività l’elettorato. I detentori di conoscenze specifiche, che la formano in ragione del proprio personale successo ma contribuendo non con ciò che sanno bensì con ciò che sentono, schiacciano sul pedale dello sdegno. Gli anti-populisti toccano corde retoriche sorprendentemente simili a quelle dei populisti. L’utilità e la prudenza sono finite alla periferia del dibattito politico, esiliate come i vecchi vizi borghesi.
In un pianeta dove vivono sette miliardi di persone, foss’anche solo per questo le relazioni in cui si trovano e i fatti politici ed economici cui danno origine sono più complessi che mai. Eppure, questa facilità e istantaneità di connessione ha consolidato nei formatori dell’opinione pubblica, e nei decisori che in qualche modo li seguono e tentano di indirizzarli, l’idea che mai come ora si tratta di cambiare il mondo, non di interpretarlo. Il tradimento dei chierici è sempre lo stesso: militare e insegnare a militare, quando ci sarebbe bisogno del loro aiuto per provare a comprendere la realtà. Per quel che possiamo.
da Il Foglio, 23 aprile 2022