Intervista a Paul Romer, premio Nobel per l'economia 2018

Il ruolo di creatività e sviluppo tecnologico per la crescita di un'economia

11 Ottobre 2018

IBL

Argomenti / Economia e Mercato

Per i loro studi sui rapporti tra cambiamento climatico, nuove tecnologie e andamenti macroeconomici, Paul Romer e William Nordhaus hanno ricevuto il premio Nobel per l’economia 2018.
Una intervista a Romer è contenuta all’interno del libro di Arnold Kling e Nick Schulz,
Economia 2.0: il software della crescita, pubblicato nel 2013 da IBL Libri, la casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni. Un libro che, anche grazie a svariate interviste a influenti economisti (tra cui, oltre a Romer, Robert Fogel, Douglass North, Edmund Phelps e Robert Solow) analizza il ruolo di creatività e sviluppo tecnologico per la crescita di un’economia.
Di seguito proponiamo integralmente l’intervista a Romer contenuta nel libro
.

Arnold Kling & Nick Schulz: Quanto stiamo meglio oggi rispetto, per dire, o duecento o cento anni fa? A cosa dobbiamo il cambiamento e i miglioramenti?
Paul Romer: Un ottimo indicatore del cambiamento negli standard di vita nel corso del tempo è quello di chiedersi quanto di una specifica merce, sia essa una materia prima o una merce di valore, si può ottenere con il valore di un’ora di lavoro. Fortunatamente William Nordhaus ha già fatto questo calcolo spingendosi lontano nel tempo (in effetti, tanto lontano quanto possiamo andare nella storia dell’uomo), concentrandosi in particolare sulla luce: quanta luce si può ottenere con il valore di un’ora di lavoro? O, più precisamente, se qualcuno lavora per un’ora per ottenere l’energia necessaria a produrre luce, quanta luce sarà in grado di produrre con quella quantità di energia?

AK&NS: E con “luce” si intende la luce [necessaria] per illuminare una stanza?
PR: Sì. Misurata esattamente con l’unità fisica che userebbe uno scienziato, vale a dire i lumen di luce. Negli ultimi cent’anni abbiamo avuto un miglioramento notevole nella quantità di luce che la persona media può ottenere dal valore di un’ora di lavoro. Avevamo visto grandi miglioramenti già nel corso del XIX secolo, ma è nel XX secolo che sono stati radicali. E guardando indietro si capisce che questo processo non riguarda solo una quantità sempre maggiore di luce disponibile per il valore di un’ora di lavoro, ma anche un suo ritmo di crescita sempre più elevato.

AK&NS: Anche la velocità sta cambiando.
PR: Sì. Ma il mistero va oltre la questione del perché le cose migliorino. Il punto è: perché le cose migliorano con una velocità sempre maggiore con il passare di ogni secolo? Questa è la questione fondamentale da risolvere.

AK&NS: Perché le cose stanno migliorando a un ritmo più veloce?
PR: Il bello di questo particolare esempio della luce sta nel fatto che Nordhaus ripercorre tutta la storia fino alla rivoluzione del Neolitico, in modo da poter veramente tracciare tutta la storia umana e capire quanto siano stati eccezionali gli ultimi duecento anni in termini di cambiamenti degli standard di vita. Quando si guarda in questo particolare campo e ci si chiede cosa accadeva – come si produceva luce duecento o trecento anni fa – [si scopre che] venivano usate candele create con grasso animale; poi si passò all’uso del gas, con impiego di fiamme libere; successivamente il gas venne fatto bruciare all’interno di una sorta di reticella, un sacchettino di stoffa, e si può vedere che, con ogni nuova tecnologia, ogni scoperta, la gente ha trovato modi migliori per ottenere la luce e che si trattava di fare sempre meno quello che si faceva in precedenza. Non abbiamo ottenuto l’aumento di luce producendo centinaia di migliaia di candele a persona, ma passando alle candele a gas; e quando abbiamo avuto il gas, abbiamo imparato che avremmo potuto farlo bruciare come una fiamma libera, ma che all’interno di una reticella si poteva ottenere effettivamente molta più luce per unità di gas o per unità di energia. Proseguendo attraverso i secoli abbiamo avuto il cherosene, poi la lampadina elettrica a incandescenza e quindi la lampadina fluorescente. All’epoca in cui Nordhaus terminò il suo studio la lampadina compatta fluorescente era lo strumento più efficace per convertire l’energia in luce. E qualcuno, leggendo il suo lavoro avrebbe ben potuto dire, “certamente abbiamo raggiunto il limite massimo di efficienza possibile nella produzione di luce”, eppure dalla stesura di quel testo siamo passati a tutta una nuova generazione di dispositivi basati su Led, i quali producono luce con efficienza ancora maggiore di quanto facciano le lampadine compatte a fluorescenza. Dunque, dietro la risposta più semplice abbiamo che sono il cambiamento tecnologico, la scoperta e i nuovi modi per utilizzare i materiali disponibili sulla terra a guidare il processo per ottenere in quantità sempre maggiore ciò che vogliamo – come l’illuminazione, che ci permette di fare altre cose di notte, cosa prima impossibile.


AK&NS: Che cos’è la “nuova teoria della crescita” e che prospettiva ci dà di questo processo di cambiamento tecnologico?
PR: La nuova teoria della crescita descrive un insieme di ricerche e lavori iniziato essenzialmente a metà degli anni Ottanta, quando un gruppo di economisti, me compreso, ha cercato di capire il processo di cambiamento tecnologico e utilizzare gli strumenti standard dell’economia, incentivi e istituzioni, per capire cosa accelererebbe o rallenterebbe la velocità del cambiamento tecnologico. E siamo partiti – precisamente – con questa domanda: cosa fa aumentare il tasso di cambiamento tecnologico nel tempo? Prima c’era la tendenza a trattare il cambiamento tecnologico come quella forza che entra in un sistema economico dall’esterno e non avevamo alcuna base per rispondere a una qualsiasi domanda in merito a cosa potesse influenzare questo ritmo – si trattava di quello che veniva chiamato “cambiamento tecnologico esogeno”. Semplicemente, veniva dall’esterno. La gente agiva come se l’analisi economica non potesse aiutarci a capire il motivo per cui il tasso di cambiamento tecnologico potesse subire accelerazioni, mentre io ho analizzato proprio questo e mi sono detto che poteva essere la domanda più importante della storia dell’uomo. Allora, perché esiste il cambiamento tecnologico e perché è andato accelerando nel tempo? Ecco, la nuova teoria della crescita era un tentativo di utilizzare gli strumenti dell’analisi per rispondere a domande del tipo: perché la crescita e la tecnologia accelerano con il tempo? E penso che le spiegazioni a cui siamo giunti dopo aver indagato tutti gli aspetti di questa domanda per vent’anni o più siano queste. In primo luogo, inerente al processo di scoperta potrebbe esserci il fatto che più si impara, più velocemente si può imparare. Si tratta di un concetto colto da Newton quando disse che poteva vedere più lontano perché era salito sulle spalle di giganti. Questo è stato il primo modello che ho cercato di articolare per quanto riguarda il fenomeno dell’accelerazione, vale a dire che quanto più si impara, più si può imparare. Tutto ciò ha senso nel mondo della scoperta, anche se non lo avrebbe se si parlasse di scoperta del petrolio. Per quanto concerne la scoperta di idee ha senso, ma per la scoperta del petrolio non ne ha, perché quello è un processo di esplorazione fisica dove all’inizio troviamo solo una limitata quantità di petrolio, poi, tendenzialmente, si trovano abbastanza presto i depositi più grandi e di seguito si continua a lavorare con quantità sempre minori, per cui è ragionevole aspettarsi un rallentamento. Una delle prime domande che dovemmo affrontare nel riflettere su questo fu: cosa sono le idee? In cosa differiscono dagli oggetti fisici, come il petrolio? E un aspetto evidente nel quale differiscono è che la gamma di idee possibili, l’insieme delle cose che ci sono là fuori da scoprire, è proprio così incomprensibilmente grande che abbiamo solo iniziato a esplorare il più piccolo sottoinsieme di possibili idee o scoperte.

AK&NS: E come si fa a saperlo?
PR: Ci sono alcuni semplici calcoli che si possono fare qualora ci si chieda: quali sono tutte le idee possibili? Basta chiedersi: quante miscele si possono ricavare dalla tavola periodica? Si prendano un centinaio di elementi dalla tavola e ci si interroghi su quante cose diverse possiamo ottenere mescolandoli. Prendiamo del rame, dell’ossigeno, del carbonio, agitiamoli un po’, mescoliamoli insieme, riscaldiamoli e stiamo a vedere cosa si ottiene. Se si tenta di fare il calcolo di quante miscele si possano ottenere in questo modo, ci si accorge che sono molte di più di quelle che devono esserci state nei primi secondi dopo che il Big Bang creò l’universo. Anche se ogni essere umano in vita avesse cercato una nuova miscela ogni secondo da quando l’universo è stato creato, si tratterebbe comunque solo di una piccola frazione delle miscele possibili. Se pensiamo quindi alle idee come a ricette o istruzioni per prendere gli oggetti fisici a nostra disposizione e riorganizzarli in qualche modo, come avviene in una miscela, è facile capire che stiamo esplorando solo una piccola parte di ciò che è possibile. Abbiamo scoperto che si può creare il bronzo a partire dallo stagno e dal rame, e si tratta di una miscela di grandissimo valore che scoprimmo molto presto. Tutta l’Età del Bronzo derivò da questa scoperta. Quindici o venti anni fa, qualcuno ha scoperto che se si prendono rame, bario, ossigeno e ittrio, e li si cuoce insieme in un recipiente di ceramica, si può creare un superconduttore che agisce a temperature molto più elevate di quelle che si potevano ritenere possibili fino ad allora. Dunque stiamo ancora scoprendo delle cose a livelli davvero basilari: gli stessi livelli del mescolare rame e stagno per ottenere del bronzo. In questo caso si è trattato di creare questi superconduttori ad altissime temperature. Ma è solo l’inizio della scoperta, poiché le creazioni più interessanti della nostra vita non sono semplici misture, ma cose interconnesse secondo un certo tipo di ordine o con un particolare tipo di struttura.
Ecco un esempio: io sostengo che lì fuori ci sia una ricetta utilizzabile per assemblare atomi di carbonio, ossigeno e idrogeno, e che se si usasse la giusta ricetta per combinarli insieme, si creerebbe una fabbrica più piccola di un’auto, una fabbrica mobile, che scoverebbe un altro input rinnovabile e lo convertirebbe in qualcosa di chimico che gli esseri umani vogliono, che si aggiusterebbe da sé in caso di danno, manterrebbe condizioni sterili, sarebbe anche in grado di replicare se stessa al termine del corso di vita di una generazione. E allora la domanda è: si può davvero mettere insieme a partire dal carbonio, dall’idrogeno e dall’ossigeno qualcosa che sia così sofisticato? Se si resta sull’astratto forse molte persone risponderanno che no, non è possibile. Basta poi far notare loro che questo qualcosa già esiste, nella forma di una mucca. E poi, basta far riflettere bene la gente su quale sia la ricetta, o l’insieme di istruzioni, sottostante a una mucca. Beh, c’è una sequenza di Dna che porta un elenco di istruzioni su come assemblare il materiale grezzo; allora, ci si potrebbe chiedere quanti siano i Dna possibili. Come nel caso di molte altre miscele, la gran parte non funzionerà, sarà non-funzionale, ma anche solo considerando quelle che funzionano, abbiamo quello che i fisici chiamerebbero un numero iper-astronomico. Ci sono più sequenze di Dna possibili di quante siano le particelle elementari nell’universo. E non potremmo mai crearle tutte perché non ci sono abbastanza particelle nell’universo per farlo. Tuttavia, se immaginiamo un insieme di tale vastità e riflettiamo sul fatto che un elemento ricavato da esso è un qualcosa di straordinario come una mucca, e un altro è un pipistrello che si muove tramite ecolocazione, e un altro ancora è l’essere umano – gli esseri umani, che parlano fra loro e creano musica come Mozart – la conclusione alla quale si giunge è che questo insieme di tutte le strutture ordinate possibili che possiamo creare a partire dalle materie prime che possediamo qui sulla terra è incredibilmente vasto. La gran parte di queste strutture saranno inutili. Non avranno ordine, non avranno struttura e saranno prive di valore per noi; ma un piccolo numero, una piccola parte di esse, può avere un valore enorme, come i Led, le mucche o altre cose simili. Dunque è questo tipo di analisi, il considerare le idee come delle ricette – realmente, come delle istruzioni con cui combinare assieme piccoli numeri di oggetti fisici – che persuade chiunque lavori attraverso la logica del fatto che il numero di cose che possiamo aver intentato fino a questo punto è piccolissimo se confrontato con il numero di cose possibili, talmente piccolo che siamo solo ai primissimi passi del processo di scoperta. Infatti, per quanto ci si possa proiettare nel futuro degli esseri umani, non rimarremo mai senza nuove cose da scoprire. E come ho supposto all’inizio potrebbe anche darsi che più impariamo su questo processo – la scienza del Dna, la scienza dei materiali, la nostra conoscenza della meccanica quantistica – più impariamo su queste cose, migliori saremo nella scoperta di nuove miscele e di valore ancora maggiore.

AK&NS: [Una volta] iniziato a tenere in considerazione il cambiamento tecnico e la crescita in termini di ricette, nell’economia ci fu un cambiamento concettuale in merito a quelli che tradizionalmente si consideravano i fattori della produzione. È corretto?
PR: Sì. C’era la questione di come collegare questo tipo di discussione piuttosto astratta con i modelli di crescita standard. Integrammo i tradizionali fattori della produzione – terra, lavoro e capitale fisico – con questa sorta di concetto-sostituto che chiamammo tecnologia. Individuammo insomma in maniera esplicita quest’ultimo input come tecnologia. Ha caratteristiche diverse dagli altri fattori, essenzialmente simili a degli oggetti fisici, e la teoria che sviluppammo tratta dell’interazione fra accumulazione di maggiore conoscenza, vale a dire un numero più grande di ricette, e altri input più tradizionali. Una cosa che vorrei tentare di chiarire è che parte di questa trasformazione si allontanava dal considerare la produzione – cioè, noi diciamo che l’economia produce cose, ma in un certo senso non facciamo nulla in realtà. Pensate alla cosa come farebbe un fisico: noi non produciamo nulla, semplicemente ristrutturiamo. Il modo in cui noi creiamo valore è attraverso la ricombinazione della massa fisica disponibile sulla terra, e il processo di creazione del valore ammonta all’utilizzo di ricette per ricombinare le cose, istruzioni per ristrutturarle o disporle in configurazioni con un valore più elevato delle precedenti, e ciò aiuta a capire perché non è un problema se le cose finiscono. La questione è che abbiamo sempre la stessa quantità di materia e che si tratta solamente di ricombinarla nei modi che riteniamo più produttivi.

AK&NS: Julian Simon aveva la sua idea di risorsa ultima, la quale – per collegarsi a ciò che lei ha appena detto – era l’ingegnosità umana. L’ingegno umano ha la capacità di ricombinare quello che già abbiamo in un numero di modi pressoché infinito e quindi non rimarremo senza risorse perché possiamo continuare a spostare le cose e a manipolarle. È corretto?
PR: Sì. Simon ebbe una sorta di intuizione a questo proposito; aveva osservato la storia e si era detto: “Guarda un po’, siamo preoccupati di rimanere senza roba” – tornando indietro fino a Malthus, è sempre stato detto che le cose potevano solamente peggiorare. E invece le cose migliorano di continuo e a ritmi sempre più veloci, e quindi è l’ingegno umano a fare in qualche modo la differenza. Aveva ragione. Tuttavia credo che non abbia scavato abbastanza nella questione, non abbia indagato cosa nel mondo fisico renda possibile all’ingegno umano di fare la differenza. Immaginiamo di vivere in un mondo fisico vuoto, sterile, che indipendentemente da quanto siamo intelligenti non ci permetta di fare nulla. Semplicemente, non ci sarebbero tutte queste interessanti ricette o ricombinazioni, perché non avremmo abbastanza ingredienti o non riusciremmo a mescolare quelli che abbiamo in maniera interessante. Così quello che mancava nell’idea di Simon era, secondo me, la visione di cosa nel mondo fisico potesse generare il potenziale del quale poi l’ingegno umano avrebbe tratto vantaggio. E non sottolineava nemmeno la netta distinzione fra oggetti fisici, dei quali ci sono quantità scarse, o comunque limitate, e l’insieme di possibili ricombinazioni di questi stessi oggetti fisici, praticamente illimitate, praticamente infinite. C’è poi quel concetto, che viene dalla matematica, delle esplosioni combinatorie. Tale nozione ci dice che se prendiamo un piccolo numero di oggetti e ci chiediamo in quanti modi possiamo ordinarli, o combinarli, il numero di combinazioni cresce in modo estremamente rapido assieme al numero degli elementi. A volte la gente parla di crescita esponenziale come di un processo di crescita che decolla molto rapidamente. Queste combinatorie – il numero di combinazioni che si possono ottenere da un dato numero di oggetti – crescono in maniera sempre più rapida man mano che aumenta il numero degli oggetti. È un’ esplosione combinatoria assieme a un elevato numero di elementi primi nell’universo a darci tutta questa sabbia con cui giocare. E dunque per l’ingegno umano c’è ancora qualche sfida produttiva e utile da risolvere. Quando formulammo questi modelli e cercammo di condensare tale complesso argomento in fattori di produzione ricorremmo alla matematica per tentare di descrivere quella che chiamammo la funzione della produzione, vale a dire il modo in cui tutte queste cose erano collegate le une alle altre. Quello che la matematica rivelò furono gli aspetti fondamentali per cui le idee o ricette differiscono dagli oggetti fisici. Ho descritto uno di questi, l’ illimitatezza della scoperta di nuove ricette – vale a dire, quella caratteristica per cui le idee sono diverse dalla quantità scarsa e limitata di oggetti fisici. C’è un altro aspetto che si rivela anche più importante ed è il fatto che un oggetto fisico può essere usato solamente da una persona alla volta. Prendiamo un pezzo di legno. Posso usarlo per costruirmi casa oppure lo potete usare voi per la vostra, ma non possiamo farlo tutti e due nello stesso momento. Invece, se si scopre il teorema di Pitagora e un carpentiere lo utilizza per creare gli angoli giusti, io posso comunque descriverlo ad altri e tutti possono tracciare bene gli angoli, nello stesso momento e con un’unica scoperta. La caratteristica delle idee è ciò che chiamiamo “non-concorrenzialità” – vale a dire che voi e io non siamo rivali per l’uso del teorema di Pitagora. Possiamo usarlo contemporaneamente. È stata la matematica ad affinare la nostra comprensione della distinzione fra oggetti fisici concorrenziali e idee non concorrenziali. E la matematica [ha attirato la nostra attenzione anche su] un teorema potentissimo che risale ad Adam Smith, il quale dice che in un senso molto ben definito, le migliori consuetudini che si possono creare per trarre valore da oggetti fisici scarsi sono quelle che comprendono diritti di proprietà e scambio di mercato. È un risultato davvero netto e rilevante in tema di potere dei mercati e di diritti di proprietà quali meccanismi di creazione di valore a partire da oggetti fisici scarsi. La cosa interessante e sorprendente in merito alla nostra analisi dei beni non concorrenziali è che questo teorema semplicemente non funziona. È venuto fuori che i diritti di proprietà in mercati competitivi in senso tradizionale non sono affatto l’istituzione ideale per la creazione di valore se simultaneamente vogliamo scoprire molte nuove ricette e combinare tali ricette con questi oggetti fisici scarsi.

AK&NS: Può spiegarci perché è così?
PR: Sì, possiamo guardare indietro alla storia dell’uomo e chiederci, “Perché le cose sono migliorate così tanto nel tempo?”. Una parte molto importante [del progresso] è stata la scoperta e l’implementazione della nozione di mercato competitivo. I diritti di proprietà privata e lo scambio di mercato sono intuizioni davvero potenti e all’interno del dominio al quale si applicano sono davvero le migliori istituzioni possibili. Dunque, parte della cosa è la storia del moderno capitalismo di mercato, che è la scoperta di mercati e diritti di proprietà, un insieme di consuetudini che è andato crescendo nel corso del tempo. Tuttavia c’era anche un insieme di usanze parallelo, che chiamerei consuetudini della scienza moderna, e queste si sono sviluppate su linee molto diverse. Non esiste alcun concetto di diritti di proprietà [nella scienza]. Per esempio, le università e i sistemi di ricerca di oggi sono stati progettati non per creare diritti di proprietà, ma per favorire la rapida diffusione delle nuove informazioni; gli studiosi vengono premiati in base alla priorità con la quale svelano le informazioni, così che la prima persona che lo fa si prende tutto il merito professionale di aver scoperto qualcosa di nuovo. Si tratta di una disposizione volta precisamente a non mantenere segrete le cose, ma a favorire la disseminazione più vasta possibile di qualsiasi nuova intuizione o idea. La forza di questo è che quando una persona scopre il teorema di Pitagora e lo rivela a tutti, può continuare a lavorarci su, può usarlo per fare triangoli rettangoli o forse per scoprire nuove idee matematiche, ma allo stesso tempo anche tutti gli altri possono usarlo per fare triangoli rettangoli o scoprire nuove formule matematiche. Dunque, è meglio condividere queste nuove scoperte e far sì che vengano utilizzate da più gente possibile allo stesso tempo.
Quindi abbiamo un insieme di consuetudini, come mercati e diritti di proprietà, che funzionano molto bene con gli oggetti fisici, ma ce ne sono altre, quelle della scienza, che funzionano bene per la vasta disseminazione e l’utilizzo di intuizioni chiave e idee. Torniamo alla domanda iniziale: perché la crescita ha accelerato nel tempo? Come ho già detto, la mia prima risposta era che, beh, è una cosa inerente al processo di scoperta il fatto che più si scopre e più le cose s’ imparano velocemente. La seconda risposta, che credo colga una maggiore verità, è che può anche diventare più facile scoprire le cose man mano che se ne imparano altre, ma quello che è certo è che si creano consuetudini migliori nel tempo, così che oggi sfruttiamo le opportunità di scoperta in maniera molto più efficace di quanto non avvenisse nel passato. Secondo questa visione le consuetudini umane sono andate migliorando; dal momento che abbiamo consuetudini migliorate, utilizziamo tutta la nostra energia in modo più produttivo e ne derivano cose migliori.

AK&NS: Addentriamoci un po’ in questo argomento. Quali sono le istituzioni di cui parla? E, cosa altrettanto importante, sia per il contenuto di questa conversazione sia in generale, è stato solo per un caso della storia che esse sono emerse quando l’hanno fatto e nel modo in cui l’hanno fatto – solo una fortuna cieca? Oppure sono sorte in accoppiata con qualche cosa di identificabile, così che sia possibile generare queste istituzioni laddove manchino e, magari, espanderle in aree in cui al momento non esistono?
PR: Partiamo da quest’ultimo punto. Farei una distinzione fra questioni di sviluppo e questioni di crescita. Le prime comprendono argomenti che hanno a che vedere con il motivo per cui alcune persone, alcune nazioni, hanno standard di vita molto bassi se paragonati a quelli altrui, e credo che grandissima parte della risposta sia che non hanno attuato le tipologie di istituzioni e consuetudini che sappiamo funzionare bene – istituzioni in cui, ancora una volta, l’economia di mercato con diritti di proprietà, dominerà una quota molto ampia di ciò che accade quotidianamente, o dominerà l’attenzione e le attività della gran parte delle persone presenti nell’economia. Ma ci sono anche altre istituzioni, le consuetudini della scienza, che nutrono e sostengono l’economia di mercato e che operano con linee guida differenti. Quello che c’è di sbagliato in molte parti del mondo è la mancanza di tali istituzioni e delle due [tipologie]. Mancano essenzialmente le consuetudini di mercato, perché, se ci si pensa, un Paese povero dell’Africa sub sahariana trarrebbe enormi benefici dal ricorrere a ciò che è già ben noto nel resto del mondo, senza necessariamente dover contribuire al corpus di conoscenze che lo sorreggono. Se essi riuscissero ad attuare quelle consuetudini che permettono sostanzialmente di vivere di rendita, vale a dire se potessero trarre vantaggio da quello che gli altri hanno scoperto e già sanno, le cose per loro andrebbero molto meglio.

AK&NS: Nel libro Barriere alla ricchezza delle nazioni, Edward Prescott e Steve Parente sostengono che se le zone del mondo sottosviluppate o non sviluppate potessero catturare lo stock di conoscenza esistente, non avrebbero bisogno di generare nessuna nuova conoscenza e otterrebbero comunque lo standard di vita di cui si gode in Europa occidentale, negli Stati Uniti e in Giappone.
PR: Sì. E di nuovo ritorniamo alla ragione fondamentale della cosa. Si tratta della non-concorrenzialità della conoscenza. Tutti possono usare le stesse procedure, gli stessi processi, le stesse formule che usiamo noi senza per questo privarcene, e traendone vantaggio. Le istituzioni che favoriscono l’utilizzo da parte loro di queste idee – o le cose che mancano – sono le istituzioni di mercato. Dunque per quanto concerne lo sviluppo, probabilmente non è una scorciatoia affermare che le uniche istituzioni che contano sono quelle del mercato. Prendiamo i diritti di proprietà, le consuetudini basilari di sicurezza, la sicurezza personale, un sistema legale che sostenga i diritti di proprietà – prendiamo queste cose, mettiamole in atto e tutto andrà bene. In questo senso, il semplice messaggio lanciato da Adam Smith con l’analisi della mano invisibile è un punto di partenza molto buono per migliorare le cose dal punto di vista dello sviluppo. Ma quando si pensa a una politica per le nazioni all’avanguardia – o quando si pensa alla questione storica di come siamo migliorati sempre di più nel corso del tempo – penso che bisognerebbe avere una prospettiva più elaborata, nella quale si tengano in considerazione sia le istituzioni dei mercati sia quelle della scienza, che operano insieme ma che in un certo senso sono in conflitto le une con le altre. E credo che una delle domande più interessanti ed eccitanti per una prospettiva politica sia di chiedersi dove possiamo tracciare tale linea. In altre parole, dove utilizziamo le istituzioni di mercato e dove quelle della scienza e come formiamo un interscambio efficace fra domini in cui regnano diversi insiemi di consuetudini? Un posto in cui vediamo ribollire queste domande potrebbe essere il mondo del software open-source, che è un tentativo di produrre software sotto le linee guida della scienza e non del mercato. E ci sono dibattiti in merito alle licenze. Fino a che punto vogliamo davvero che esistano licenze o diritti di licenza su nuove idee o su sequenze di geni? Vogliamo davvero questa protezione per licenza o copyright sulle diverse forme di proprietà intellettuale? Domande in tal senso sono molto interessanti e sottili, e in effetti siamo all’interfaccia fra scienza e mercato. Forse vogliamo alcune forme di diritti di proprietà come le licenze e il copyright, ma anche essere certi che non sia nulla di troppo forte o troppo comprensivo, oppure troppo limitante. Nei prossimi decenni si dovranno prendere molte decisioni su come strutturare esattamente le cose in questa terra di confine.

AK&NS: A questo punto, crede che il miglior approccio sia quasi esclusivamente ad hoc oppure esistono principi ai quali possiamo far appello per valutare dove tracciare la linea?
PR: Penso che ci siano principi che possiamo utilizzare, ma a essere onesti ritengo che non vengano compresi molto bene. È il compito delle persone come me che hanno dato il via alla nuova teoria della crescita cercare di spiegare tali principi. Se andiamo indietro di molti anni o decenni, la missione principale dell’economia era comunicare l’idea della mano invisibile – vale a dire, spiegare che non c’era bisogno di una regolamentazione pubblica, né di prescrizioni, né di uno Stato che facesse da fornitore; bastava che stabilisse diritti di proprietà e poi restasse fuori dall’economia. Era un messaggio importantissimo da diffondere e ancor oggi bisogna fare proseliti e persuadere i decisori politici e la gente comune della sua bontà; ma ora ci stiamo avvicinando a questa nuova sfida, vale a dire quella di cercare di spiegare tale importante eccezione al messaggio originale – cioè che in realtà c’è posto per l’azione dello Stato, essenzialmente un’azione collettiva che davvero faccia migliorare l’economia. Ecco il quadro che si può dipingere: per molte idee, per la gran parte delle idee, quello che dovremmo creare sono diritti di proprietà deboli, incompleti, e non diritti corazzati. Prendiamo il terreno – sarebbe da pazzi dire che il diritto di proprietà di qualcuno debba terminare dopo sette anni. Si genererebbe il caos e ci sarebbe spreco di terra, perché nessuno avrebbe un diritto prolungato su di essa. Quindi è piuttosto ovvio che questo tipo di approccio non abbia senso per gli oggetti fisici. Però taluni limiti sulla lunghezza e sulla portata delle licenze, oltre che la possibilità per le persone di prendere a prestito le idee altrui – una sorta di diritto di proprietà debole – probabilmente sarebbero un compromesso ragionevole in economia, poiché consentirebbero agli incentivi del settore privato di favorire lo sviluppo di nuove idee, pur impedendo la creazione di un monopolio che ostruirebbe il riutilizzo di un’idea all’infinito. Se i bis, bis, bis, bisnipoti di Pitagora avessero ancora i diritti di proprietà sul teorema e se tutti coloro che devono fare qualcosa in cui compaiono triangoli rettangoli dovessero pagare una royalty a questi eredi, il processo di scoperta ne sarebbe rallentato in modo tale da perdere tutti i suoi benefici. L’economia basata sulla scienza moderna è caratterizzata dal possedere diritti di propri

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