28 Marzo 2022
Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Diritto e Regolamentazione Teoria e scienze sociali
Il 30 marzo entrerà in vigore un nuovo regolamento (che modifica un decreto del 2015) che disciplina l’investimento in «fondi d’investimento alternativi», cioè hedge fund, private equity, venture capital. L’acquisto di questi prodotti sino a oggi era possibile solo con un investimento minimo di mezzo milione. La soglia viene ora abbassata a 100 mila, anche per investitori non professionali, che di solito si avvalgono di un servizio di consulenza.
Messa così, parrebbe una mossa che va nella direzione di avvicinare a strumenti finanziari più complessi anche risparmiatori per così dire di taglia inferiore. Ma attenzione: si potranno impiegare 100 mila euro solo se tale cifra corrisponde al massimo al 10% del portafoglio complessivo. L’idea è che i consulenti propongano strumenti sofisticati soltanto a un cliente che, in ragione delle sue disponibilità, dovrebbe essere sufficientemente avvertito da prendere consapevolmente i rischi che essi presentano. Inoltre, ci si sincera che egli non metta «troppo» del proprio capitale in prodotti illiquidi, come i fondi di private equity. L’origine di questo approccio risale al Testo unico della finanza. Allora (1998) per consentire agli investitori non professionali di fare uso di questi veicoli si immaginò una liberalizzazione circoscritta a chi aveva disponibilità e caratteristiche tali da rassicurare il regolatore circa il grado di informazione e consapevolezza che soggiaceva alle sue scelte.
Sono passati venticinque anni e la logica è quella di ampliare, piano piano, il campo da gioco. La preoccupazione di non mettere armi troppo sofisticate in mano a tiratori inesperti andrebbe, però, risolta nell’ambito del rapporto fra il risparmiatore e l’advisor di cui si avvale. Un buon consulente cercherà di proporre soluzioni coerenti col profilo di rischio, l’età, il grado di educazione finanziaria della persona che ha davanti. Il cliente può avere più o meno propensione a correre dei rischi ma, se è padrone del suo denaro, è padrone anche di perderlo. La norma tradisce una profonda diffidenza verso strumenti d’investimento che in Italia tendiamo a demonizzare.
Il mestiere del regolatore dovrebbe essere, invece, quello di garantire i flussi d’informazione più trasparenti, corretti e comprensibili. In questo quadro, però, i consulenti dovrebbero poter raccomandare l’asset allocation che a loro pare più appropriata e gli investitori, piccoli o grandi, dovrebbero poter investire i propri quattrini. Si pensa che limitando il campo di gioco il regolatore non si troverà poi a dover «salvare» giocatori sprovveduti. Forse, con l’esperienza dei bailout degli scorsi anni alle spalle, possiamo dire che è più vero il contrario. Continuando a considerare gli investitori come dei minorenni sino a prova contraria diventa poi difficile rispondere loro, in caso di crisi, che vigono le regole del mercato. Che cioè si vince e si perde. Nel momento in cui non si può perdere non siamo più in un’economia di mercato, ma in qualcosa d’altro.
Da Corriere della sera – Economia, 28 marzo 2022