Italia a due velocità. Nord e sud più lontani

Bisogna riflettere sul flop del modello assistenziale e sperimentare soluzioni alternative

3 Luglio 2017

La Provincia

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Gli ultimi dati diffusi dal Centro Studi della Cgia di Mestre sono più che eloquenti. Nonostante un gran numero di programmi e finanziamenti, in Italia la distanza tra il Nord e il Sud sta crescendo: in termini di produttività, occupazione, disoccupazione, esclusione sociale. Se già in passato molti studi storici hanno evidenziato l’allargarsi del divario tra Settentrione e Meridione a partire dal 1861 (perché allora le distanze non erano abissali), con la crisi del 2007 il dislivello tra le condizioni delle due Italie si è accresciuto.

Prima che la tempesta finanziaria investisse l’Europa ed evidenziasse la fragilità di economie gravate da immensi debiti pubblici, il prodotto interno lordo pro-capite al Nord era di 32.680 euro. Negli otto anni successivi non è cresciuto un granché, ma è comunque passato a 32.889 euro. Nel frattempo, invece, il Pil del Sud è addirittura sceso, passando da 18.426 a 17.984 euro. Un gap già alto è aumentato ulteriormente, arrivando al 4.905 euro. Questo significa che fatto 100 il reddito medio al Sud, quello al Nord è ormai a 181.

Le cose non vanno meglio in tema di occupazione, dato che il divario (che era al 20,1%) è ora cresciuto fino al 22,5%: e questo significa che mentre il tasso di occupazione in Calabria è perfino inferiore al 40%, in certe aree del Settentrione supera il 70%. In considerazione di ciò, non è sorprendente che anche il differenziale del tasso di disoccupazione sia aumentato, passando dal 75% al 12,0%.

Soggetti a rischio
Significativo è pure il dato sui soggetti a rischio di esclusione. Nel 2007 il 42,7% dei cittadini meridionali era a rischio povertà e ora siamo al 46,4%. Le cose sono andate male anche al Nord, passando da 116,0% a 117,4%, ma l’aggravarsi della situazione meridionale è stata tale che nonostante questo anche qui la distanza è aumentata.

Questi dati dovrebbero fare riflettere, dato che siamo di fronte apolitiche assistenziali fallimentari (lo mostrano i dati) e anche ormai prive di una qualsiasi giustificazione.

Inerzia pericolosa
In fondo, ancora trent’anni fa le politiche di redistribuzione dal Nord a Sud erano accompagnate da una visione in virtù della quale si pensava che quei sostegni e quegli investimenti avrebbero favorito la crescita del Mezzogiorno. Oggi non c’è più nulla di tutto ciò. Si continua a de stinare al Sud molte delle risorse prodotte al Nord, ma non ci si illude più che questo possa aiutare il Meridione a progredire. Se le politiche assistenziali permangono in vita, è solo per una sorta di inerzia e perché tutti sanno quanto sia difficile vincere la resistenza dei gruppi che proliferano attorno alla spesa pubblica.

Da sempre al Nord è forte la consapevolezza che queste politiche impediscano all’economia di Lombardia e Veneto di esprimere appieno le proprie potenzialità; e non a caso in queste due regioni 22 ottobre si terrà un referendum che è insignificante sul piano istituzionale, ma che potrebbe avere (anche contro le intenzioni dei promotori) rilevanti conseguenze politiche.

Oggi bisogna però anche essere consapevoli che questa “droga finanziaria” che l’economia settentrionale elargisce in vari modi al Sud si pensi ai 20 mila forestali della Calabria o al numero esorbitante dei dipendenti regionali della Sicilia… – ha pure la conseguenza di negare al Mezzogiorno la possibilità di avere un futuro.

Inglobato entro l’Italia, il Sud può sopravvivere solo grazie a una ricchezza prodotta altrove. Quello di cui avrebbe bisogno, invece, è di poter contare su di sé e poter trasformare in opportunità quelle che, ora, sono oggettive debolezze.

Attualmente la redditività del lavoro al Sud è inferiore a quella del Nord. In virtù dei contratti nazionali, però, le imprese devono retribuire allo stesso modo un lavoratore di Como e uno di Enna. Per quale motivo, in tale situazione, si dovrebbe investire al Sud? E infatti, senza soldi pubblici, ben pochi lo fanno. Se invece i contratti di lavoro potessero essere diversi, nel Mezzogiorno arriverebbero aziende e anche molti meridionali non andrebbero a fare impresa altrove.

Intralci allo sviluppo
Questo, però, è soltanto uno dei tanti danni arrecati alla società meridionale dall’unificazione regolamentare e fiscale che è stata realizzata nel corso degli ultimi 150 anni. Un altro intralcio allo sviluppo, in effetti, è dato dall’imposizione tributaria, perché un fisco che è già molto gravoso nel Centro-Nord si rivela insopportabile in Calabria o Basilicata. Economie in via di sviluppo non possono subire livelli di prelievo che possono essere accettabili in economia più avanzate.

Oltre a ciò, è anche irrazionale che nonostante il diverso costo della vita si retribuiscano allo stesso modo i dipendenti pubblici delle diverse regioni: che a Como e a Enna un maestro elementare riceva lo stesso stipendio. Nei Paesi federali non è così e questo evita quella corsa al posto pubblico su cui ha richiamato l’attenzione anche Checco Zalone in un suo film.

In questa situazione, il Sud fatica a crescere da sé, dato che la società si trova ormai in un rapporto di tossicodipendenza nei riguardi del denaro del Nord, con la conseguenza che quasi tutte le comunità locali sono ormai sotto il controllo della classe politica e, in molti casi, anche di quella criminalità organizzata che da tempo ha stretti rapporti con essa.

Il Sud potrà trovare una sua strada quando sarà più libero e dovrà reggersi sulle proprie gambe; e di conseguenza potrà trasformare in punti di forza (come hanno fatto tanti Paesi che erano poveri e arretrati) le proprie presenti debolezze.

Da La Provincia, 2 Luglio 2017

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