La guerra in Ucraina come cartina di tornasole dei vizi italici, diventati patologie mortali. Combattiamo per la libertà occidentale per interposta persona, finanziamo l’aggressore comprandogli un miliardo di gas al giorno mentre smettiamo di acquistare caviale. E ci dividiamo per interessi partitici nazionali più che per divisioni ideologiche e politiche. Alberto Mingardi, accademico, giornalista, ex enfant prodige del pensiero, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, centro studi che ha nella diffusione delle idee liberali la propria ragione sociale, ha tanti meriti. Tra i quali, l’allontanamento dal La Stampa, di cui era editorialista, dopo la strambata rosso profondo del nobile quotidiano piemontese.
Quanto sta costando la guerra all’Occidente, all’Europa e all’Italia?
«È difficile dirlo, per ora. Sicuramente c’è stata una brusca revisione delle stime di crescita. Le conseguenze più preoccupanti possono essere a lungo termine».
Per ora noi combattiamo una guerra prevalentemente economica…
«La necessità di opporsi alla Russia ha aperto la porta a interventi senza precedenti, rispetto allo stato di diritto. Faccio un esempio banale: le riserve depositate sul conto della Banca centrale sono, nella percezione di tutti, quanto di più “sicuro” possa esserci. Noi abbiamo “congelato” metà delle riserve estere della Banca centrale russa, riserve in valute parcheggiate presso la Federal Reserve (Fed) e la Banca centrale europea. Non è solo una violazione dei diritti di proprietà: è la dimostrazione che i diritti di proprietà possono essere violati dai governi persino nel sancta santorum delle banche centrali. Lo stesso si può dire delle argomentazioni addotte per congelare i beni degli oligarchi. Le deduzioni che conducono a sospettarli corresponsabili dell’invasione dell’Ucraina sono spesso, diciamo così, appena abbozzate».
Ma questo cosa cambia per noi economicamente?
«È possibile che i mercati pensino che ci comportiamo così solo in circostanze eccezionali. Ma è anche possibile che individui e imprese ne traggano le conclusioni che lo Stato può farci quel che vuole, senza che vi siano regole che ne disciplinino gli interventi».
Si può vincere una guerra solo con le sanzioni economiche?
«La logica delle sanzioni è che il peggioramento delle condizioni economiche dovrebbe creare una tale insoddisfazione all’interno del Paese nemico, da provocare un cambio di regime. Però sessant’anni di embargo americano a Cuba tendono a suggerire che non sempre le cose vanno nella direzione auspicata. Castro ne ha tratto anzi linfa vitale, presentandosi come paladino del suo popolo contro l’affamatore americano. Ma immaginiamo pure che stavolta le sanzioni funzionino. Siamo sicuri che una potenza nucleare ridotta in miseria sceglierebbe di votarsi alla democrazia liberale?».
Quale sarà il prezzo più grande da pagare?
«La più rilevante conseguenza della guerra, perlomeno a oggi, per noi saranno le ondate migratorie: dall’Ucraina e probabilmente, a causa di questo livello dei prezzi alimentari, dai Paesi africani. Se non c’è crescita economica, la commozione di oggi (come accadde coi profughi siriani) può rapidamente lasciare spazio a una reazione di un populismo virulento».
Le sanzioni e l’intenzione di non comprare più gas dalla Russia dimostrano che la globalizzazione è finita?
«La globalizzazione non è fatta dagli Stati e dai primi ministri, ma da una miriade di decisioni quotidiane di consumatori e imprese. Queste decisioni sono prese sulla base della convenienza di fare realizzare un certo bene o un certo servizio in un determinato luogo anziché in un altro, non sulla base di alleanze politiche. Certo, questa situazione un po’ per le sanzioni, un po’ per l’instabilità e l’incertezza in cui ci troviamo può rendere artificialmente più costose alcune decisioni, e dunque indurne una revisione. Ma ricordiamoci due cose: 1) “de-globalizzare” significa rendere più costosi molto beni per i consumatori; 2) non basta che un governo dica “dobbiamo produrre microprocessori in Italia” perché questo accada. Non solo le materie prime non spuntano sugli alberi, ma nemmeno le conoscenze necessarie per realizzare una certa produzione».
Funerale un po’ troppo anticipato quindi?
«I festeggiamenti per la fine della globalizzazione fanno parte di una lettura ideologica di quanto sta avvenendo. Lo si diceva già per la pandemia. Ma il commercio internazionale ha retto meglio di quanto ci si immaginasse e le filiere di fornitura si sono riorganizzate, autonomamente e traendo beneficio dalla flessibilità di un’economia di mercato. Non c’è un ministro che abbia idea di come si produca, non dico un iPhone, ma nemmeno una matita. I sogni politici di ridefinire gli spazi del commercio internazionale possono rapidamente diventare incubi».
È giusto fare uscire la Russia dal G20 e dalle grandi istituzioni internazionali?
«Si tratta di consessi nei quali leader e apparati governativi si confrontano, di luoghi in cui si parla… Proprio nei momenti di tensione serve avere dei luoghi in cui comunque, anche su altre partite, si mantiene viva una conversazione. Trovo che farne a meno abbia più costi che benefici».
E il capitalismo occidentale è al capolinea?
«L’Occidente è pieno di straordinarie energie imprenditoriali. Certo, oggi queste energie sono straordinariamente compresse e c’è, molto più che in passato, il desiderio di asservirle a fini che prescindono dall’obiettivo della singola impresa, che è fare profitto. Dobbiamo stare attenti: a caricare sulle spalle delle imprese il compito di salvare l’ambiente, ma anche il compito di penalizzare Putin e i russi, si riduce la libertà d’intraprendere e si può finire per ammazzare la gallina dalle uova d’oro della nostra prosperità».
Il disastro dell’Occidente è dovuto agli errori dei Clinton, di Obama e dei Bush in politica estera?
«Sono stati presidenti molto diversi. Obama e Trump sono stati entrambi eletti perché gli elettori americani non desiderano più fare i poliziotti del mondo. Ciò è vero anche ai tempi di Biden: si pensi al fatto che non ha pagato poi molto, in termini di consenso, il modo scandaloso in cui è uscito dall’Afghanistan. Certo l’interventismo americano in politica estera ha aperto più di un vaso di Pandora: le conseguenze perverse e indesiderate dei diversi interventi sono state ben di più degli obiettivi centrati.
Insomma, è finito il tempo degli Stati Uniti potenza egemone?
«Dovremmo tutti, anche gli americani, essere un po’ più umili quando “maneggiamo” politiche, storie e contingenze di Paesi lontani. Se il Presidente Usa dice: non vedrete mai un elicottero abbandonare il tetto dell’ambasciata americana a Kabul, e poi succede esattamente questo, vuol dire che le informazioni a sua disposizione erano lontanissime dal cogliere effettivamente ciò che stava succedendo. Troppo spesso noi pontifichiamo, e i politici decidono, sulla base di informazioni errate o viziate dalla propaganda».
Trump sostiene che se ci fosse stato ancora lui la guerra non sarebbe scoppiata. Condivide?
«Non possiamo saperlo. La politica estera di Trump è sempre stata peculiare ma, innanzi alla minaccia atomica della Corea del Nord, diede prova di strana forma di una diplomazia del bullo che, in quell’occasione, funzionò. Però i sentimenti antirussi sono molto radicati nell’establishment statunitense, democratico e repubblicano che sia».
Perché l’opinione pubblica italiana è divisa sulla guerra?
«Siamo una società relativamente aperta, non è scandaloso avere opinioni diverse. Certo, fa un po’ impressione che le idee diverse diventino così occasioni di tifo quasi calcistico. Ci siamo abituati al gioco della delegittimazione reciproca, io non mi impegno a persuaderti delle mie ragioni, desidero soltanto silenziarti se non la pensi come me. Sarebbe bello se alle affermazioni affermazioni sgradite si rispondesse colpo su colpo, dimostrando perché sono errate. Invece oggi si chiede a una televisione e addirittura alle università di staccare il microfono a chi ha un’opinione “irricevibile”. Le conseguenze sono preoccupanti, specie fra i più giovani, che crescono in un mondo dove anziché criticarsi, magari anche aspramente, si invoca la censura per chi la pensa diversamente. Bisogna anche dire che molti che oggi lamentano l’unanimismo sulla guerra, solo ieri erano pronti a “cancellare” colleghi che avevano idee diverse in tema di economia, questioni di genere e quant’altro. Non si può predicare la tolleranza solo per gli amici».
Quanto delle attuali difficoltà economiche, dall’inflazione al caro bollette, all’impennata della benzina, alla scarsità di materie prime è davvero dovuta alla guerra e quanto invece è dovuto alla situazione del Paese?
«Se un Paese ha una finanza pubblica solida e se viene da anni di crescita economica, gestisce uno shock meglio di uno che ha l’acqua alla gola. Noi purtroppo non abbiamo una finanza pubblica solida e non siamo cresciuti per anni. Dopo la pandemia, abbiamo pensato di aver raggiunto finalmente il Bengodi del Pnrr ci siamo disinteressati di riforme che aspettiamo da anni. Anche adesso, i più si illudono che la guerra ci porterà a spillare quattrini o agli americani o di nuovo agli altri Paesi europei. Abbiamo ormai imparato a rappresentarci come i mendicanti d’Europa e ad andarne perversamente orgogliosi».
Non vede speranza per il nostro Paese?
«Noi abbiamo bisogno di crescere e per crescere servono riforme credibili, che facciano dell’Italia un Paese in cui si può investire senza fare la straordinaria fatica che tutt’oggi costringiamo le aziende a fare. Purtroppo il governo Draghi aveva rinviato al 2022 i primi aggiustamenti di finanza pubblica: chi (eravamo pochi) era scettico su questa scelta ha avuto, purtroppo, purtroppo, ragione. Siamo molto deboli, in un periodi strepitosa incertezza. Il governo dovrebbe guardarsi di meno l’ombelico, tenere la barra dritta sulla finanza pubblica, sbrigarsi a vendere ITA (ogni giorno che passa sono quattrini che si perdono), mettere in pista liberalizzazioni vere (a cominciare dal mercato del lavoro) e cominciare a dismettere le industrie di Stato che abbia mo rimesso sotto il cappello della Cassa depositi e prestiti».
Quanto è a rischio la tenuta sociale?
«Se non cresciamo, vedremo esacerbarsi conflitti sociali che renderanno difficile gestire i nuovi flussi migratori, perché l’immigrazione determinerà una sorta di guerra fra poveri».
È possibile per l’Italia rendersi più autonoma a livello energetico, e cosa dovrebbe fare?
«Bisognerebbe che le imprese potessero provare a fare ciò che desiderano per generare più energia. E’ facile riempiersi la bocca di indipendenza energetica, ma poi c’è la sindrome NIMBY, not in my backyard, non nel giardino di casa mia. Le trivelle? Mai. I parchi eolici? Neppure. Il TAP? Ci mancherebbe. Il nucleare? Non ne parliamo. Intendiamoci, è così per tutto: a Milano non riescono neanche ad avviare i lavori per il nuovo stadio, e parliamo dello stadio! Ci comportiamo come bambini viziati e i nostri leader politici, anziché fare gli adulti e spiegarci che non esistono scelte importanti che non prevedano anche dei costi, ci accontentano sempre».
Italiani popolo di risparmiatori: la guerra quanto toserà gli investimenti e il tesoretto delle famiglie?
«Il reddito medio in Italia è attorno ai 22 mila euro all’anno. L’aumento della bolletta di per sé riduce in modo sensibile il reddito disponibile delle persone. In più, i costi dell’energia sono pervasivi, condizionano la produzione della quasi totalità delle merci che noi scambiamo. Inoltre, la guerra si innesta su un quadro già contrassegnato da una forte inflazione, dovuta in larga misura alla gestione della pandemia».
Vogliamo chiudere con un messaggio positivo?
«Difficile. C’è da essere preoccupati. Negli ultimi anni, i prezzi sono rimasti stabili soprattutto grazie a globalizzazione e innovazione tecnologica. Dell’inflazione dovrebbero occuparsi le banche centrali mentre i nostri governi dovranno fare tutto quello che possono per rilanciare le attività produttive, per accrescere la libertà d’impresa e per non ridurre gli spazi dello scambio internazionale. Pena un pesante impoverimento di noi tutti».
da Libero, 28 marzo 2022