12 Agosto 2022
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
In Italia la disaffezione al voto è ormai un dato strutturale, su cui è necessario riflettere. Alle ultime elezioni comunali la partecipazione non ha superato il 55% degli aventi diritto; e il cittadino sembra sempre più indifferente alle istituzioni politiche. Le origini di questa crisi della democrazia sono evidenti, dato che mai come oggi vi è una così grande distanza tra la gente comune e le classi dirigenti. In fondo, anche il diffondersi di tesi complottiste è lì a mostrare che molti sono persuasi (in modo non del tutto infondato) di essere gestiti da soggetti lontani e privi di legittimazione.
Neppure il successo del cosiddetto “populismo” ha colmato questo vuoto, anche in ragione del fatto che in troppe circostanze le scelte degli elettori contano poco o nulla. Come diceva Gaetano Mosca, non siamo noi a eleggere i parlamentari: sono loro a farsi eleggere da noi. Un modo per dire che il ceto dirigente è in grado di predefinire in larga misura l’esito della competizione elettorale, tanto più che una volta che le urne sono state aperte iniziano i veri giochi di potere gestiti da questo o quel leader, che spesso tradiscono quanto sarebbe stato deciso dagli elettori.
L’ultima legislatura è al riguardo molto significativa, dato che cinque anni fa il voto espresse un pieno appoggio ai partiti detti populisti (Lega e Cinquestelle), ma poi lo scettro è stato consegnato a Mario Draghi e, di conseguenza, a quanto vi è di più lontano da quella prospettiva. Non bastasse tutto ciò, il sistema politico appare molto chiuso e impermeabile. Nuove formazioni non possono facilmente apparire sulla scena, perché vi è uno sbarramento del 3% (e del 10% per le coalizioni): si tratta di un ostacolo molto alto per chi è poco noto, senza sostegni, non gode del sostegno della grande stampa e non ha modo di raggiungere la maggior parte dei cittadini.
Oltre a ciò, per chi non ha rappresentanti in Parlamento è necessario raccogliere un numero altissimo di firme: un passaggio che invece non è richiesto ai partiti già presenti alla Camera o al Senato. In poche parole, il Palazzo è un castello inaccessibile, lontano dai cittadini. Tanto più che anche quando una forza politica nuova riesce a emergere dal nulla (come fu con la Lega alla fine degli anni Ottanta oppure, più di recente, con i Cinquestelle), il regime politico possiede tanti e tali meccanismi d’interdizione da obbligare, in sostanza, a scendere a patti con l’assetto istituzionale e di potere esistente.
In questa situazione, una larga parte della popolazione è portata a ritenere che esprimere il proprio voto, alla fine, sia del tutto inutile. Nell’Italia del Gattopardo così bene raccontata da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, tutto cambia di continuo affinché nulla cambi davvero. In fondo, anche molti degli elettori residui si recano in cabina non già perché pensino che la loro scelta incida. Lo fanno perché avversano con tutto il loro essere alcuni dei protagonisti del teatrino romano e sperano, votando qualcun altro, di vederne la disfatta. Si vota quasi sempre perché si odia qualcuno, ma non già perché si creda che il proprio gesto servirà a costruire qualcosa.
Da La Provincia, 11 agosto 2022