“Le riforme italiane sono importanti, tutte giuste e aumenteranno la competitività. In particolare il Jobs Act che aiuta le assunzioni e i giovani. Dunque è molto probabile che l’Italia possa sfruttare le nuove clausole di flessibilità sui conti pubblici”. Pronunciate ieri a Roma in Parlamento dal vicepresidente della Commissione europea Jyrki Katainen, il finlandese rigorista già temuto come e più dei tedeschi, queste parole non solo danno il via libera alla manovra di bilancio italiana (quello definitivo, come per la Francia, arriverà a marzo), dopo i nuovi criteri sviluppisti annunciati da Bruxelles, ma costituiscono il più esplicito riconoscimento a Matteo Renzi venuto dall’establishment europeo e nordico in particolare. Katainen, incontrando il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha aggiunto che il semestre renziano “ha contribuito a cambiare verso all’Europa. Tutti abbiamo disperatamente bisogno di crescita”. Parole ed elogi che sono a loro volta il segnale evidente dell’inversione a U: ancora un mese fa la Commissione chiedeva all’Italia “altri progressi” intanto che Standard & Poor’s tagliava di un’altra tacca il rating sovrano.
Dal punto di vista di Renzi i fatti di queste ore sono però anche altro. Il premier ha in mano argomenti solidi per ribattere a chi l’aveva accusato di essere tornato a mani vuote dai sei mesi in Europa. Punto due, la sponda principale nell’Eurozona non è più solo quella francese (anzi), poiché l’apprezzamento nel merito e non solo nelle attese arriva dagli alleati della Germania, e nel caso di Katainen dall’uomo che Angela Merkel ha messo a marcare il francese Pierre Moscovici: faccenda che tornerà già nel summit con la cancelliera il 22-23 gennaio a Firenze. Punto tre, il Jobs Act, contro il quale è scesa in piazza la Cgil, ma minimizzato anche da Confindustria e parte del centrodestra, si sta confermando una riforma forte, presa in parola da Sergio Marchionne per assumere al sud e citata ad esempio da Katainen. Così Renzi spunta dall’elenco un’altra richiesta della lettera della Bce dell’agosto 2011 per soccorrere i titoli pubblici italiani (allora) e per ristabilire a più lungo termine la fiducia degli investitori e rilanciare la competitività e la produzione (oggi). Dopo lo sprint iniziale del governo Monti, sui conti pubblici e con il passaggio al sistema pensionistico contributivo, il cacciavite di Enrico Letta s’incriccò tra esodati e Imu. Risultato: sul Foglio del 18 agosto 2013 l’economista Carlo Stagnaro misurò un livello di attuazione delle riforme pari al 25 per cento. Renzi può aggiungervi il Jobs Act e l’abolizione della concertazione nazionale a favore della contrattazione aziendale. Come importanza siamo al 60 per cento di attuazione, potremmo dire: restano ancora fuori la riforma della Pubblica amministrazione e il taglio delle aziende municipalizzate, annunciati ma da approvare. Dunque il premier non fa sfigurare il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi che nel momento clou, alla vigilia del lancio del Quantitative easing (allentamento monetario), ha deciso di rivolgersi all’opinione pubblica tedesca “da italiano che sa cosa significa lavorare sodo”. Nelle recenti interviste all’Handelsblatt e soprattutto alla Zeit, Draghi ricorda che le misure monetarie straordinarie per rimediare all’inflazione a zero non sono per la Bce un optional “ma un obbligo del mandato”. Ovvero che l’Eurotower non è per pochi ma per tutti gli europei. Per rafforzare il concetto ha aggiunto un “i tedeschi devono capire” che entra direttamente nei salotti dove si tifa per Jens Weidmann della Bundesbank.
Tra i gufi si riaffaccia l’ipotesi euro-marco
L’offensiva mediatica s’accompagna al parere della Corte di giustizia europea che ha risposto alla Corte tedesca di Karlsruhe attribuendo piena legittimità all’acquisto di titoli pubblici da parte della Bce. In Germania c’è chi sostiene che queste conclusioni, se confermate, potrebbero portare alla rottura dell’euro dall’alto col ritorno al marco: “Se la Corte di Karlsruhe accetta la sentenza del Lussemburgo, la conseguenza è che non saremo più uno stato sovrano”, scrive sul Teleghaph Ambrose Evans-Pritchard.
“I giudici di Karlsruhe dovrebbero proibire alle nostre istituzioni di prendere parte all’acquisto di bond” a cominciare dalla Bundesbank. Fragore di armi, contribuenti tedeschi in nuovo subbuglio e, dopo che la Svizzera ha rotto la parità con l’euro, con l’onta di sentirsi trattare da terroni. Altri dogmi in frantumi. L’Europa (forse) cambia verso, come dice Katainen di Renzi.
Da Il Foglio, 16 gennaio 2015