L'ambiente? Prima le persone

In "The Bet" Paul Sabin, professore di storia a Yale, racconta la storia di Paul Ehrlich e Julian Simon per spiegare l'altalenante influenza delle idee ecologiste in America

20 Gennaio 2014

Il Sole 24 Ore

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Nella primavera del 1981 un celeberrimo ambientalista venne sfidato da un economista, nemmeno dei più noti. Questi gli propose di scommettere sui prezzi delle materie prime mettendo così alla prova le rispettive convinzioni circa la loro scarsità futura. Le profezie dell’uno, preoccupato delle «inevitabili» carestie prossime venture, e sicuro che fosse impossibile per la produzione agricola tenere il passo della crescita demografica, suggerivano che i prezzi avrebbero dovuto aumentare. L’ottimismo dell’altro, fiducioso che la creatività e l’ingegno delle persone avrebbero portato al miglioramento delle tecniche di sfruttamento delle risorse e alla scoperta di nuove, puntava nella direzione di prezzi inferiori. Con una certa cavalleria, l’economista lasciò all’altro la scelta delle commodity oggetto della scommessa.
Dopo attenta riflessione, questi decise per cinque metalli: cromo, rame, nikel, stagno e tungsteno. «Ciascuno aveva visto un drammatico aumento della produzione nel ventesimo secolo». E negli anni Settanta, il prezzo di ognuno era cresciuto vistosamente. Se non fosse che ciò era avvenuto (ma l’ambientalista non se ne avvide) anche per l’inflazione galoppante. I due composero così un paniere dei cinque metalli per un valore complessivo di mille dollari. Se, dopo dieci anni, i prezzi, aggiustati all’inflazione, fossero saliti, l’economista avrebbe pagato la differenza. Se fossero scesi, sarebbe toccato all’ecologista. Nel 1990, l’economista ottimista ricevette una busta col timbro postale di Palo Alto, California: dentro, un assegno per 576,07 dollari. Non c’era biglietto. «A dispetto di un aumento senza precedenti nella popolazione mondiale da 4,5 a5,3 miliardi, il prezzo di cromo, rame, nickel, stagno e tungsteno era sceso in media di almeno il 50 per cento».

I duellanti erano Paul Ehrlich e Julian Simon, e oggi Paul Sabin, professore di storia a Yale, racconta l’uno e l’altro per spiegare l’altalenante influenza delle idee ecologiste in America, in un libro doverosamente intitolato: The Bet. Sabin ne presenta le posizioni con onestà intellettuale e apprezzabile sobrietà.
Paul Ehrlich, apprezzato biologo esperto di farfalle, cattedra a Stanford, a un certo punto smette i panni dello studioso per dedicarsi a temi neppure contigui a quelli della sua disciplina. È angosciato per il futuro della razza umana, sulla base di un pensiero all’apparenza inoppugnabile: noi siamo sempre di più, male risorse naturali sono finite. Così, si butta anima e corpo nella battaglia ambientalista. L’umanità ha goduto di quattro secoli di crescita economica ma, vaticina nel 1968, «il boom è finito». Invoca il controllo delle nascite, in una lettera di raccolta fondi definisce l’immigrazione una «marea umana» che stava «deprimendo l’economia». Il suo «The Population Bomb» raggiunge in breve tempo fama planetaria. Con lui, scienziati che ne condividono le preoccupazioni e i timori. Genuinamente persuaso che le masse brancolino nell’oscurità e pochi possano tener vivi i lumi, Ehrlich incarna al massimo grado lo stereotipo dell’intellettuale impegnato.

Julian Simon è una figura la più distante da Paul Ehrlich. Mai gli arrise il successo accademico. Studia a Chicago, ma alla business school, e il suo primo lavoro nella vita è fare l’imprenditore: fonda un’aziendina di direct mailing. Il professore, in famiglia, è la moglie Rita, apprezzata sociologa. Torna in università, trentunenne, insegnando dapprima pubblicità. Aveva iniziato a fare scommesse col padre. «Lui diceva sempre cose oltraggiosamente sbagliate, e non voleva sentir ragione. Allora gli chiedevo “vuoi scommettere?”» Imparare a leggere i dati, per rifarsi di un padre arrogante. Dopo aver sostenuto tesi non troppo diverse da quelle di Ehrlich, se ne allontana. Nel pensiero di Simon, tanto laico da portare i figli alla partita in occasione del giorno di espiazione del Kippur, s’insinua una reminiscenza religiosa. Che diritto ha il governo, o una grande organizzazione internazionale, o uno scienziato famoso come Paul Ehrlich, di dire alla gente quanti figli fare?

La crescita demografica non è necessariamente una catastrofe. «Il beneficio maggiore apportato dalle dimensioni e dalla crescita della popolazione consiste nell’aumento dello stock di conoscenze utili. Dal punto di vista economico, l’intelletto conta quanto, se non di più, di mani e bocche». È un argomento avanzato anche da Simon Kuznets e da altri economisti che riflettono criticamente sull’isteria da sovrappopolazione ma Simon ne fa una bandiera. Il suo libro più importante s’intitola The Ultimate Resource. La risorsa ultima sono le persone: la loro creatività, la loro inventiva, i loro bisogni che stimolano la creatività e l’inventiva altrui.
Paul Sabin guarda gli ultimi quarant’anni dall’oblò delle politiche ambientali. Se Nixon corteggiò a lungo gli ambientalisti (a lui si deve l’istituzione dell’Environmental Protection Agency), Carter e Reagan sono i due presidenti che hanno finito per incarnare, nell’agone politico, le sensibilità di Ehrlich e Simon. Con qualche paradosso.

L’unica volta che Simon vide una propria idea tradursi in pratica fu durante l’amministrazione Carter. Si discuteva della liberalizzazione del traffico aereo, e venne consentito alle compagnie di gestire l’overbooking indennizzando i passeggeri disponibili a rimanere a terra: una pensata di Simon. Invece, negli anni Ottanta, sosteneva la libertà d’immigrazione: e per questo si trovò a flirtare con Ted Kennedy e a perdere simpatie in campo conservatore, dove i repubblicani «moderati» non erano poi molto distanti da Ehrlich. Sabin considera l’uno e l’altro, Simon e Ehrlich, due estremisti di genio. Il suo libro ha il merito di ricordarci che le questioni ecologiche riguardano, prima ancora che l’ambiente, la nostra visione del mondo. Siamo pronti a non aver paura del futuro?

Da Il Sole 24 ore, 19 gennaio 2014
Twitter: @amingardi

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