Una rivoluzione liberale. Nel senso più profondo del termine re-volutio: tornare indietro. Daniel Klein è professore di economia alla George Mason University, negli Stati Uniti, e ha da tempo intrapreso una missione accademica e personale: riaffermare il concetto di liberalismo nella sua valenza originaria. Un «liberalismo 1.0», come lo definisce, che si opponga all’appropriazione indebita che la sinistra americana ha fatto della parola liberal. «Chi è legato ideologicamente al Partito democratico e si definisce liberal non ha certo come punto di riferimento Adam Smith» ci dice Klein a margine di un convegno organizzato dall’Istituto Bruno Leoni di Milano.
Professor Klein, cos’è per lei essere veramente liberali?
«Significa dire al governo: “Sta a te l’onere della prova che il tuo intervento è necessario”. È un po’ come la presunzione di innocenza nell’ambito della procedura penale. Lo Stato non deve occuparsi delle questioni superiori della vita, come quelle religiose, e deve intervenire il meno possibile in economia».
Oggi a definirsi liberal, specie negli Usa, sono i progressisti di sinistra. Quando è avvenuto questo mutamento?
«Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX il partito liberale britannico ha cambiato pelle abbracciando l’idea che lo Stato dovesse occuparsi delle higher things, delle cose superiori. L’opposto della teoria liberale originaria».
Un’idea da cui si sono allontanati i repubblicani americani, basta pensare a Trump.
«Quello che dice sul commercio è terribile, un ritorno ai dazi e alla protezione. Non so se ci crede davvero, o se cerca solo di compiacere le masse che lo hanno votato. Certo questo interventismo statale nel settore privato, trasformato per giunta in una sceneggiata politica, non mi piace».
Cosa la convince del nuovo Presidente Usa?
«Sembra voler ridurre il peso del Governo, alcune nomine sembrano andare in direzione dell’impresa privata, della libera impresa. Un piccolo passo
Pochi avevano previsto l’elezione di Trump. Come giudica lo scollamento crescente tra mondo accademico e popolo?
«Almeno negli Stati Uniti, gli accademici sono in maggioranza elettori democratici. Con idee molto di sinistra».
Si riferisce a personalità come Paul Krugman o Joseph Stiglitz?
«Due perfetti rappresentati dell’accademia schierata coi democratici. Le persone normali pongono domande che gli intellettuali non capiscono. L’esito delle elezioni americane ha mostrato come in un Paese a netta maggioranza democratica, per reazione si sia riusciti a far confluire in un unico gruppo istanze diverse: dai social-conservatori agli ultra religiosi, dai nazionalisti ai liberali 1.0 come me. Il cui unico punto in comune è quello di non essere elettori democratici, e di aver quindi scelto Trump e i repubblicani. lo però non ho mai votato repubblicano».
La destra americana è quindi sostanzialmente una “non sinistra”, l’incarnazione di un’ispirazione in negativo?
«Esattamente».
Non è un paradosso che la nuova economia digitale nella patria del libero mercato, la Silicon Valley sia sostanzialmente un’economia di monopoli?
«In una prospettiva liberale, riportare l’economia digitale all’interno di regole parossistiche è un rimedio che non risolverebbe i problemi. Non sono preoccupato dal fatto che Mark Zuckerberg o qualcun altro possa acquisire un grande potere “culturale”, diciamo così, e ne possa abusare».
Nemmeno se, come si dice, dovesse candidarsi alle presidenziali del 2020 o del 2024?
«Credo che sia un simpatizzante democratico e quindi, semmai, il timore è che possa indirizzare Facebook in quella direzione».
Cosa pensa dell’euro?
«È stato un errore. Un’unica moneta per Stati così differenti non è una buona cosa. Si è creato il mostro del centralismo e si profila un’idea di un’unione fiscale, cosa che non mi piace per niente da liberale 1.0. Solo con un governo europeo pienamente esecutivo forse potrebbe andare. Ma ciò che rende un governo migliore o peggiore credo sia anche la fiducia dei cittadini. E in Europa oggi non mi sembra di vederla».
Da pagina99, 1 aprile 2017