L'articolo 18 del capitale

Punire le imprese che se ne vanno senza curarsi di attirare quelle che arriverebbero

10 Agosto 2021

IBL

Argomenti / Diritto e Regolamentazione

Il Governo sta studiando una nuova norma contro le delocalizzazioni. La norma, di cui si stanno occupando la sottosegretaria allo Sviluppo economico Alessandra Todde e il ministro del Lavoro Andrea Orlando, sarebbe finalizzata a imporre sanzioni alle imprese che trasferiscono all’estero gli stabilimenti produttivi (specie se nel passato hanno beneficiato di sussidi) e prevedere in ogni caso l’obbligo di attivarsi per garantire la continuità produttiva dei siti, anche cercando nuovi compratori. Di fatto, si tratta di rafforzare quanto previsto dal Decreto Dignità, che sembra non aver garantito le conseguenze sperate (anche perché, inevitabilmente, si riferisce alle sole delocalizzazioni verso Stati non appartenenti all’Unione europea).

C’è un’ottima ragione per cui il provvedimento del 2018 non ha funzionato, ed è la stessa per cui anche l’eventuale nuovo intervento deluderà i suoi sostenitori. Nessuna azienda prende a cuor leggero la decisione di chiudere uno stabilimento. Lo fa quando non ci sono più le condizioni per generare un utile o, almeno, per evitare una perdita. Quando arrivano a quel punto, tipicamente le imprese hanno già esplorato ogni strada per valorizzare il sito, rendendolo più produttivo, cambiando processi o prodotti, e al limite cercando qualcuno che se ne faccia carico. Chiudere implica costi economici e reputazionali: chi lo fa, vi è costretto.

E’ vero che, spesso, gli stabilimenti oggetto di chiusura hanno nel passato beneficiato di sussidi pubblici. Ma questo non dovrebbe indurre a immaginare sanzioni retroattive e implausibili. Al limite, si può prevedere (come già avviene regolarmente, per la verità) che i bandi per gli aiuti prevedano ex ante degli obblighi produttivi o di mantenimento occupazionale, con adeguate sanzioni per chi non li rispetta. Ma non è questo il punto. Il punto è un altro, e ha due dimensioni: entrambe interrogano la politica, non le imprese.

La prima dimensione riguarda le politiche di aiuto: se i sussidi non generano effetti duraturi, ma solo temporanei, e l’occupazione creata grazie a essi scompare non appena la cassa finisce, allora forse il problema non è la cattiveria delle imprese, ma il disegno dei sussidi stessi. Insomma, si tratta di misure che producono non solo sperpero di denaro pubblico, ma anche cattiva allocazione del capitale che, alla lunga, danneggia la competitività dell’intera economia (oltre a generare pericolose illusioni nei beneficiari diretti e indiretti). La seconda dimensione è più ampia: un paese che discute di come contrastare le delocalizzazioni, ma non è capace di affrontare il tema a monte – cioè attirare imprese – è un paese privo di futuro. Se le imprese scappano, c’è un perché: ed è quel “perché” che andrebbe rimosso. Aggredire i sintomi non è mai una buona alternativa a curare le cause, specie quando alimenta l’idea che non serva altro.

Le delocalizzazioni sono frutto della fisiologica attività di entry/exit delle imprese in ogni paese. La politica italiana è tutta focalizzata sull’exit e ignora l’entry. Anzi, non si rende conto che ipotizzare sanzioni e ostacolare a libertà delle imprese finisce inevitabilmente per scoraggiare nuovi investimenti: si tratta di una specie di super-articolo 18 applicato al capitale anziché al lavoro.

10 agosto 2021

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