Non è una novità: a volte bisogna mentire per rendere più digeribile una verità in sé sgradevole. Per ultimo, si veda il caso del presidente del Consiglio italiano che, nella conferenza stampa che ha seguito l’incontro con la cancelliera tedesca, ha testualmente affermato che “le politiche di austerità da sole non funzionano. Le politiche di austerità da sole portano alla sconfitta dei governi”. La prima affermazione è semplicemente falsa. Nei quattro paesi che fra il 2010 e il 2011 hanno usufruito di un programma di assistenza finanziaria da parte dell’Unione europea e che di conseguenza sono stati sottoposti alla sorveglianza congiunta di Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, non solo le politiche di austerità hanno posto termine a tendenze evidentemente insostenibili ma si è registrato un fenomeno piuttosto evidente di convergenza strutturale rispetto alla configurazione macroeconomica media dei paesi membri dell’Eurozona. Dal momento che in presenza di un’unione bancaria ancora incompleta, di un’unione fiscale di là da venire e di un’unione politica più lontana che mai una qualche convergenza strutturale è necessaria se si vuole che l’euro abbia un futuro, è francamente difficile se non impossibile sostenere che “le politiche di austerità non hanno funzionato”. L’esempio più evidente è offerto dall’Irlanda, ma Portogallo e Spagna non sono poi così da meno e, sia pure molto parzialmente, non lo è anche la stessa Grecia. Quel che è ancora più interessante è che, anche dopo l’uscita dalla fase di sorveglianza della cosiddetta troika, Irlanda, Portogallo e Spagna hanno proseguito sulla strada della progressiva convergenza rispetto alla media dell’Eurozona (la Grecia, come si sa, è ancora sotto osservazione). Chi ne volesse una prova può utilmente consultare l’Indice dell’Istituto Bruno Leoni sulla distanza macroeconomica fra i paesi membri dell’Eurozona recentemente presentato a Bruxelles nella sede del Parlamento europeo.
La seconda affermazione è probabilmente vera. I partiti che hanno gestito i programmi di assistenza finanziaria in Portogallo e Spagna non hanno perso, ma non hanno nemmeno vinto le recenti elezioni politiche e, se in Portogallo hanno già dovuto cedere il passo ad un governo composito tenuto insieme pressoché esclusivamente dalle critiche nei confronti delle politiche di austerità, in Spagna potrebbero doverlo fare presto. E quel che è accaduto in Grecia è troppo noto per doverlo ripetere. Potrebbe quindi non essere sbagliato osservare che “le politiche di austerità portano alla sconfitta dei governi”.
Ora, è perfettamente comprensibile che il presidente del Consiglio italiano, come è accaduto a molti prima di lui e come accadrà a molti dopo di lui, non voglia perdere i prossimi appuntamenti elettorali (cosa che diverrebbe, dal suo punto di vista, forse un po’ più probabile se dovesse davvero comportarsi nei prossimi mesi in maniera finanziariamente responsabile). Ed è umano che, per rendere digeribile questa sua comprensibile aspirazione, travisi la realtà: se le politiche di austerità non avessero funzionato, sarebbe certamente più accettabile farne a meno. Ma così non è andata e pertanto è bene essere espliciti: abbandonare il binomio riforme strutturali-disciplina finanziaria significa fare forse solo l’interesse del governo di turno ma certamente non quello del paese che quello stesso governo dovrebbe governare. In fondo noi semplici cittadini non chiediamo poi troppo. Visto che per il momento non si può fare molto altro, chiediamo che, almeno, ci si risparmi un giorno sì e uno no il solito ritornello: “Noi pensiamo al paese”. Così non è. Non gridiamo allo scandalo, perché sappiamo com’è fatta la politica (anche quella che vorrebbe essere nuova) ma segnaliamo rispettosamente che ancora non abbiamo l’encefalogramma piatto.
Da Il Foglio, 2 febbraio 2016