L'autocontrollo dei social

Una regolamentazione privata dei contenuti è preferibile a una pubblica

13 Settembre 2019

Il Foglio

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

“Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che proibiscano di professarla liberamente, o che limitino la libertà di parola o di stampa, o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.
Il Primo Emendamento della Costituzione americana sancisce l’inviolabilità della libertà di parola; parola è la “materia” di cui sono fatti i social media. Questa intersezione, tra il pilastro su cui si fondano la società e la cultura americana e il nuovo prodotto dell’industria e della tecnologia americana, è stata cruciale per il formarsi dei social media e per le decisioni su come regolamentarli; consente anche di capire il diverso sviluppo che essi hanno avuto in Usa e nell’Unione europea.
Oggi i social media sono al centro di molteplici accuse: di favorire una parte politica rispetto a un’altra, di essere strumento di interferenze straniere nelle elezioni, di non eliminare messaggi che diffondono odio e falsità, di intrappolare i loro utenti in bolle cognitive. Donde le richieste che un intervento governativo ne regolamenti i contenuti. John Samples, in un paper per il Cato Institute (“Why the Government Should Not Regulate Content Moderation of Social media, Policy Analysis”, Cato Institute, 9 aprile 2019, nr. 865) approfondisce le implicazioni giuridiche del testo costituzionale, e ne deriva una conclusione che suona eretica nel nostro discorso politico: che è preferibile il controllo privato della parola, e che i tentativi di un controllo pubblico normalmente falliscono; per cui è bene che a controllare i contenuti siano soggetti privati e non funzionari pubblici.

Presupposti contro la regolamentazione pubblica dei social media
Il problema se i social media debbano considerarsi bacheche o editori si pose fin dal loro apparire; fu il Primo Emendamento della Costituzione a determinare la scelta di considerarli piattaforme e non editori, scelta che si rivelò decisiva per il successo loro e di Internet in generale.
Gli utenti dei social non sono consumatori passivi dell’informazione, ma la creano, la commentano, la condividono, la discutono, a volte la modificano: così hanno il senso di partecipare a un ambiente sociale. Usano i social per comunicare, e possono farlo perché dànno in cambio i dati personali; se il governo ponesse delle restrizioni a questo scambio, lo porrebbe anche al diritto degli utenti di comunicare. Anche la regolamentazione economica può violare il diritto alla libertà di parola.
Come gli editori anche i gestori delle piattaforme hanno il diritto di scegliere che cosa pubblicare, che cosa rimuovere e in che ordine disporlo, e queste loro scelte sono anch’esse protette dal Primo Emendamento. A differenza dagli editori, il controllo da parte dei social media è ex post, e anche questa è una forma di espressione. Se Facebook rimuove dei contenuti, rende manifesta una concezione della sua comunità online, la prevalenza di certi valori su altri. La Section 230C(1) del Communications and Decency Act del 1996 prevede che nessun fornitore o utente di servizi interattivi debba essere trattato come l’editore di un’informazione fornita da un altro content provider: il Congresso ha voluto così favorire lo sviluppo della libertà di parola su Internet, incoraggiare fornitori e utenti dei servizi a tenere essi stessi Internet esente da contenuti osceni o offensivi e ad aiutare i genitori a limitarne l’accesso ai minori. Lo stesso Decency Act esenta gli intermediari dall’obbligo di controllare ogni singolo post online, cosa che renderebbe impossibile l’interattività in tempo reale che gli utenti esigono dai social media. In sostanza: il Congresso ha manifestato la propria preferenza per un controllo privato della comunicazione su Internet. Il Primo Emendamento protegge la libertà di parola dall’azione dello Stato: ma i social media, essendo di proprietà privata, non devono sottostare alle limitazioni che ha il governo, possono sopprimere dalle loro private piattaforme contenuti che il governo non potrebbe censurare.

Argomenti a favore della regolamentazione pubblica dei social media

Fin dal 1934 il Congresso impose ai mezzi di telecomunicazione di operare “nel pubblico interesse” inteso come massimizzazione del numero e della soddisfazione degli utenti, chiedendo di trasmettere contenuti che altrimenti non avrebbero mandato in onda. L’argomento del pubblico interesse, tante volte ripetuto per la tv, si basa su due assunti: primo, che l’azione del governo sia necessaria per garantire valori condivisi che si presume la proprietà privata sia inadeguata a raggiungere; secondo, che questo non comporti costi significativi per altri importanti valori. Sono gli stessi argomenti che vengono avanzati oggi a proposito dei social media. Conosciamo i risultati: l’azione del governo difficilmente raggiunge il suo obbiettivo, e quando lo fa è a un prezzo inaccettabile per altri diritti e valori.

L’argomento anti monopolista
Quelli che sostengono che i Big Tech sono dei monopoli, ne deducono che essi discriminano i punti di vista, escludendone alcuni a vantaggio di altri. Ma la tesi che i Big Tech godano di un monopolio naturale si basa su una vecchia teoria degli effetti di rete, per cui il vincitore prende tutto. Invece le aziende di Internet hanno piattaforme a più versanti, con effetti di rete indiretti su diversi tipi di utenti. Attrarre i clienti “giusti” è molto più difficile che semplicemente aggiungerne di più. Il processo può anche andare in senso opposto: molte tra le aziende che ci hanno provato sono o scomparse o finite ai margini.
Le piattaforme online di giornali e le televisioni sono tuttora la fonte principale di informazione, chi è escluso dalle piattaforme principali viene ospitato da altre minori, che nascono proprio per corrispondere a utenti che chiedono differenti standard di controllo. Quando YouTube prese a nascondere video che contenevano armi da fuoco, alcuni appassionati diedero vita a Full30, uno spazio dove condividere video senza pubblicità contrarie. E poi: se i Big dominassero li loro mercato, l’intervento del governo farebbe meglio o peggio? Abbiamo l’esempio delle telecomunicazioni: negli anni ‘20 il governo dichiarò federale lo spettro radio, e pose la FCC a regolarne l’uso. Quando arrivò la televisione, “pianificò” il servizio, riducendo il numero delle stazioni concorrenti: così il prezzo delle licenze aumentò per i newcomer, mentre gli incumbent continuarono a non pagare. La regolamentazione del governo invece che produrre più concorrenza nel mercato delle idee, protegge dalla concorrenza sia i proprietari dei social media sia i funzionari governativi.

Democrazia e deliberazione
Ci sono più associazioni di gente che la pensa allo stesso modo che club di discussione: quella che ora viene chiamata bolla conoscitiva, esiste da tempo. Facilitando lo scambio di opinioni su tutto, Internet favorisce il formarsi di gruppi di persone che hanno idee in comune. Un passo avanti per la democrazia, un passo indietro per chi propugna la democrazia deliberativa: questa necessita che i cittadini siano esposti a insiemi diversi di idee ed opinioni; se le bolle filtrano punti di vista opposti, non funziona più, si produce una polarizzazione. In realtà non c’è nulla negli algoritmi che la induca, e ricerche empiriche, ad esempio sulle elezioni del 2016, hanno mostrato che la polarizzazione è stata maggiore nei gruppi demografici che meno usavano Internet per avere notizie politiche. Uno studio del 2017 su cittadini francesi, tedeschi, inglesi rivela che tra gli utenti dei social media il dissenso dai contenuti che vedono sulle piattaforme prevale sul consenso. C’è chi vede nel Primo Emendamento la possibilità per il governo di regolare la libertà di parola per ottenere un più ricco dibattito pubblico. Ma obbligare la gente a interagire con punti di vista che non gradiscono o aborrono non è proprio quello che intendiamo come libertà individuale e di parola.

Questioni di sicurezza nazionale
I governi proteggono la patria dai suoi nemici, salvaguardano i cittadini, il loro modo di vivere, le istituzioni, la prosperità economica. Il terrorismo è violenza pubblica al fine di promuovere un’ideologia politica sociale o religiosa. La parola non è violenza, ma se incita a un’azione violenta, non è protetta dal Primo Emendamento. La Corte suprema distingue tra l’insegnamento della moralità, fino alla necessità morale di ricorrere alla forza e la violenza, e la preparazione di un gruppo a un’azione violenta: il governo non sarebbe autorizzato a censurare discorsi violenti che vogliono persuadere invece che dirigere. È stata proposta (da Eric Posner dell’Università di Chicago) una legge per cui sarebbe un delitto visitare siti web che supportano il reclutamento dell’Isis; ma il caso dei 300 americani attirati da Twitter ad affiliarsi al gruppo, non dimostra che qualche azione delittuosa sia stata compiuta da qualche suo membro; e se lo facessero in futuro, non ci sarebbe prova di un rapporto causale con le parole che hanno ascoltato. Le Corti hanno sempre rifiutato di considerare le piattaforme dei social media responsabili degli atti terroristici: perché in tal caso la responsabilità di Twitter si estenderebbe a tutti servizi usati dai terroristi, mezzi di trasporto, ristoranti, rete cellulari. La presenza di social media offre possibilità di raccogliere informazioni: come è accaduto, anche in modo preventivo.
È opinione comune che proteggere la sicurezza nazionale significhi anche impedire che potenze straniere influenzino le elezioni. Robert Mueller III ha accusato 13 russi di essere intervenuti nell’elezione del 2016 comperando pubblicità avente per oggetto temi trattati durante le elezioni, diritti civili, immigrazione. Ma per la Costituzione americana sono i cittadini, in questo caso gli utenti di internet, che devono farsi censori di contenuti pericolosi. Nel 1965 la Corte suprema abolì una legge che obbligava chi voleva ricevere pubblicazioni comuniste a registrarsi all’Ufficio Postale: anche se il Primo Emendamento non garantisce lo specifico accesso a una pubblicazione, la disseminazione delle idee non sarebbe possibile se i destinatari non fossero liberi di riceverli: “Sarebbe un ben arido mercato delle idee quello in cui ci fossero solo venditori ma nessun acquirente”.
La Fec (Federal Election Commission) proibisce a cittadini stranieri di dare contributi economici in connessione con elezioni e per comunicazioni elettorali. Però dato che non si può proibire qualunque comunicazione russa sulle elezioni americane, la Fec proibisce solo certe attività strettamente collegate al processo elettorale. Uno straniero che spende soldi per promuovere o per ostacolare un candidato potrebbe minacciare l’integrità delle elezioni; non così uno straniero che discute le questioni di cui si dibatte durante le elezioni. Censurarli significa ritenere che i voti possano essere influenzati da una campagna straniera a detrimento della sicurezza nazionale: un assunto paternalistico e contrario a molte delle ragioni con cui la Corte suprema giustifica la libertà di parola.
Se le comunicazioni straniere fossero una minaccia alla sicurezza nazionale, basterebbe proibirle tutte: ma esse offrono anche vantaggi ai cittadini americani.
Governi stranieri non sempre rappresentano solo gli interessi dei loro cittadini: ad esempio una nazione esportatrice potrebbe voler fare propaganda contro il protezionismo americano, e questo potrebbe essere vantaggioso per i cittadini americani. In sostanza: la legge americana permette certi discorsi da parte di stranieri durante le elezioni, ma non permette a stranieri di spendere soldi per comperare pubblicità che favorisce o si oppone a un candidato. C’è poca evidenza che gli sforzi russi abbiano avuto qualche effetto durante le elezioni del 2016: si sa bene quanto è difficile far cambiare orientamento di voto anche con spese rilevanti: e l’investimento russo è stato una minuscola frazione del totale delle spese elettorali del 2016.

Un’alternativa privata
Facebook, la società che più è stata coinvolta nei tentativi di interferenza russa, si sta regolamentando da sola; Mark Zuckerberg considera quella di difendersi da interferenze elettorali come una delle questioni più importanti per la sua azienda. Gli account vengono identificati ed eliminati non per il loro contenuto, ma perché violano lo standard della comunità di Facebook, che richiede che ogni utente sia identificabile. Zuckerberg ammette che ci sono falsi positivi e falsi negativi, ma ritiene di aver raggiunto uno standard di trasparenza superiore a quello che hanno mai avuto una televisione o un giornale. Facebook, molto più che il governo federale, può offrire una soluzione al pericolo della sicurezza nazionale, dato che il settore privato può fare cose che sono e devono essere interdette al settore pubblico: ad esempio la legge federale sulle elezioni non richiede che gli autori di messaggi siano identificati.
Ma gli sforzi di Facebook sono veramente una decisione privata, e come tale esenti dal Primo Emendamento, oppure sono il risultato di una pressione politica? Alla luce delle preoccupazioni del Congresso per le attività russe nelle elezioni del 2016, e delle minacce da parte di alcuni membri di regolamentare Facebook, la questione rimane aperta.

Prevenire i danni provocati dai contenuti
I social media sono “parole” e poco altro. Per questo sono largamente immuni da regolamentazione governativa, a meno che questa sia strettamente definita per ottenere un prevalente interesse nazionale: come potrebbe essere il caso di prevenire i danni provocati da fake news e da hate speech. Entrambi hanno però un punto debole: la vaghezza nel definirlo. La Corte suprema ritiene che un termine sia vago e l’usarlo incostituzionale se persone di intelligenza normale devono indovinare il suo significato. La vaghezza infatti consentirebbe al governo sopprimere sia i contenuti proibiti che quelli consentiti.
Che cosa è una fake news? Le definizioni proposte dal Digital Economy Working Paper (2018-02 JRCR Technical Reports pp-11) – discorsi che servono a un particolare progetto, o che mettono le persone a disagio, o che modificano l’orizzonte politico – contengono tutte termini che non passerebbero il controllo della legge costituzionale americana. Il termine sembra comprendere tre elementi, intenzionalità, falsità, danno pubblico: ma l’intenzionalità è anche una caratteristica dei discorsi permessi, e quindi la falsità è riferita ai contenuti, che generalmente i governi degli Stati Uniti non sanzionano, a meno che si tratti di oscenità, diffamazione, discorsi connessi a crimini, pedopornografia, frode, minacce alla verità, discorsi che presentano grave e imminente minaccia che il governo ha il potere di prevenire. La Corte riconosce il fondamento storico di tali eccezioni. Ma non ha mai approvato la regola che affermazioni false non siano protette dal Primo Emendamento: dare al governo il potere di limitare la parola per ragioni di verità, farebbe temere che possa essere repressa anche la parola consentita, e questo chiama in causa il fondamento della nostra libertà. Diverso è il caso della diffamazione: chi è diffamato ha diritto ad essere risarcito, ma bisogna che ci sia danno alla reputazione, la falsità da sola non basta.
Si teme che le fake news possano creare confusione su questioni e fatti correnti. Ma oggi la gente prende le notizie online: il costo di distribuzione si è ridotto, il mercato si è ampliato, gli editori si sono separati dai distributori: i primi si preoccupano della reputazione e quindi della qualità delle notizie, i secondi sono piattaforme algoritmiche che mirano ad aumentare il traffico e i ricavi pubblicitari. Per la Commissione Europea questo potrebbe portare al fallimento del mercato delle notizie: se i consumatori hanno difficoltà a distinguere tra notizie di qualità e fake news, per evitare informazioni false consumano meno notizie, il mercato è costituito da un elettorato disinformato, con danno alla legittimazione democratica dei governi. Manca però supporto empirico a questi timori, e in ogni caso non c’è ragione di ritenere che regolamentando le fake news il governo serva l’interesse che dice essere a rischio. La legge dei diritti umani protegge allo stesso modo i diritti di espressione di chi dice che la terra è piatta e di chi la dice rotonda. Così fa Facebook, limitandosi a rendere più difficile cercare certe categorie di contenuti falsi, e a rimandare ad altri ritenuti più accurati. “Facebook, dice Tessa Lyons, direttore del prodotto, non vuole essere e non è l’arbitro della verità”: però ha delegato una rete di fact-checker terzi, vuol lasciar crescere cento fiori, ma assume giardinieri per tagliare quelli falsi.
Le nazioni europee sono più propense degli Stati Uniti a regolamentare i contenuti. Sarà la Commissione stessa a regolare direttamente il discorso online, oppure incoraggerà i singoli governi perché prendano misure severe per eliminali? In questi anni di discussione, si è parlato poco dei limiti dei governi sul discorso online, molto dei pericoli per la democrazia di permettere notizie false.
Riassumendo: la tesi della legittimità di una regolamentazione pubblica anziché privata è debole. Non c’è definizione precisa delle fake news, regolamentarle sarebbe incostituzionale. Le Corti hanno stabilito che i discorsi falsi, di cui le fake news sono parte, godono della protezione del Primo Emendamento.
Lo hate speech può essere definito come parole offensive dirette a gruppi che sono stati vittimizzati in passato. Prendiamo la tesi, sostenuta ne The Bell Curve, che lo IQ medio degli afroamericani sia inferiore di una deviazione standard a quello medio della popolazione americana. È hate speech? La Corte suprema si è rifiutata di tirare una riga tra discorsi permessi e proibiti, dichiarando invalide leggi che contengono i termini “spregiativo”, “insultante”, “abusivo”, “oltraggioso”: così il governo americano non ha i poteri di proibire lo hate speech. Altri Paesi – Germania a Regno Unito – limitano la libertà di parola in favore di altri valori, come la pari dignità. Gli Stati Uniti ne discutono da un secolo, ma garantiscono protezione alle più velenose forme di contenuti estremi. La Corte è particolarmente severa contro la “discriminazione del punto di vista”, col risultato, come scrive James Weinstein, di “una completa sospensione delle norme di civiltà nel discorso pubblico”. A differenza del governo, i social media possono regolare i contenuti di utenti che sono ostili a qualche gruppo. Facebook lo fa in modo ampio, definisce hate speech ogni cosa che “attacca direttamente persone in base a caratteristiche protette – razza, etnia, origine nazionale, religione, orientamento sessuale, sesso, identità di genere, seria debolezza o malattia”. Nel Giugno 2017, Richard Allan, vicepresidente di Facebook per le politiche pubbliche, disse che nei due mesi precedenti l’azienda aveva cancellato ogni settimana 66.000 post considerati hate speech, un numero modesto considerati gli oltre 2 miliardi di utenti attivi. Google ha una politica generale contro “l’incitamento alla violenza” verso una lista di gruppi, YouTube e Twitter hanno politiche analoghe.
Riassumendo: il Primo Emendamento non consente di censurare discorsi per evitare i danni che essi arrecano al discorso pubblico, a meno che si tratti di incitamento diretto alla violenza. I regolatori privati stanno facendo quello che il regolatore pubblico non può fare. La loro attività indebolisce la tesi che vorrebbe che gli Stati Uniti prendessero un atteggiamento più vicino a quello europeo nei riguardi delle fake news e dello hate speech.
C’è da chiedersi se questi sforzi relativi allo hate speech (e alla soppressione privata di contenuti russi o di incitamento al terrorismo, o alle fake news) siano proprio una decisione privata o la conseguenza di un’azione da parte dello Stato. Se Facebook e le altre piattaforme avessero rimosso contenuti per evitare di essere regolamentati, saremmo in presenza di un’attività dello Stato o di un ibrido di scelta privata determinata da minacce o offerte pubbliche?

Conclusioni
I Big Tech stanno lottando strenuamente con i problemi evocati da quanti sostengono un’iniziativa pubblica. Sono aziende sofisticate, capaci di trattare questioni del genere. Certo, i loro sforzi devono essere verificati e controllati, ma al momento è ragionevole giudicarli positivamente, soprattutto a confronto dei pericoli insiti in una regolamentazione pubblica. I funzionari governativi possono cercare, in modo diretto o obliquo, di obbligare le aziende a eliminare certi discorsi: il risultato sarebbe che le vittime di questa censura pubblica-privata non saprebbero a chi fare ricorso. Inoltre le Big Tech, tra le aziende più innovative dell’America, sarebbero attratte in una palude di politiche polarizzanti. Per evitare di polarizzare la tecnologia, è vitale che i regolatori privati siano capaci di ignorare le minacce esplicite o implicite alla loro indipendenza da parte dei funzionari pubblici.

da Il Foglio, 13 settembre 2019

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