Ristorante «Two Continents», Washington, quattro strade dalla Casa Bianca. Dopo il caffè, due politici, un professore di economia e un giornalista discutono animatamente di tasse e conti pubblici. A un certo punto l’economista stende il tovagliolo e con la stilografica traccia una specie di campana rovesciata su un fianco. «Vedete? spiega ai suoi interlocutori Non è vero che più si aumentano le imposte e più cresce il gettito fiscale. Anzi, esiste una soglia limite, un punto di svolta oltre il quale accade esattamente il contrario: più lo Stato carica il contribuente, meno incassa». Arthur Laffer ripone la penna con accademica condiscendenza guardando i due uomini seduti di fianco a lui, Donald Rumsfeld e Dick Cheney, collaboratori del presidente repubblicano Gerald Ford. Il più pronto è il quarto commensale, l’editorialista del «Wall Street Journal» Jude Wanniski, che lì per lì battezza quel grafico schizzato sulla salvietta la «Curva di Laffer».
Così almeno l’ha raccontata sul suo giornale lo stesso Wanniski. Era il 1974. Quarant’anni dopo, archiviate le bellicose carriere di Rumsfeld e Cheney, quel disegnino vive una nuova, controversa, stagione. Ora che il paradigma del rigore ha mostrato tutti i suoi limiti, il confronto tradizionale tra la famiglia dei liberisti e quella della sinistra keynesiana si sposta su basi politico-culturali diverse. Merito di alcune opere di grande ambizione, anche se a tratti di impervia lettura, tra le quali spicca il lavoro dell’economista francese Thomas Piketty (Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani), e di altri saggi di più ridotta caratura, come gli scritti e le conferenze di Alvin Rabushka. Questo politologo americano sta conducendo un’intensa campagna per la diffusione della flat tax, il prelievo unico sui redditi con una aliquota tra il 15 e il 20%.
L’idea di un’imposta secca risale al 1956 e fu avanzata da Milton Friedman, il massimo teorico del neoliberismo, che la sistematizzò nel suo fondamentale Capitalismo e libertà (1962, ultima edizione in Italia, Ibl Libri, 2010). Nel nostro Paese la flat tax è comparsa su diverse sponde. Nel 1994 la voleva Silvio Berlusconi e nel 2005 il radicale Marco Pannella. Oggi la rilancia Matteo Salvini, segretario della Lega Nord. In Italia, però, la semplificazione fiscale, il passaggio dai cinque scaglioni attuali a uno solo, presuppone la riscrittura dell’articolo 53 della Costituzione, che prevede la progressività della tassazione. Inoltre resta la grande incognita dell’impatto sulle entrate tributarie e dunque sull’equilibrio del bilancio pubblico. Il ragionamento torna a quel tovagliolo del «Two Continents», alla «Curva di Laffer», con due teoremi da verificare. Il primo lo abbiamo già visto: la mini-imposta unica incoraggia anche gli evasori a onorare i pagamenti. Il secondo si può enunciare così: bisogna sgravare i contribuenti più ricchi, perché potranno mettere più risorse al servizio dello sviluppo. Il sistema, liberato dai balzelli, sarà in grado di riequilibrare la distribuzione del reddito.
Cambia il meccanismo: anziché la progressività, introdotta all’inizio del Novecento, entra in funzione il cosiddetto trickle down, letteralmente «sgocciolamento». Laffer e i suoi ammiratori confidano in un aggiustamento automatico, quasi naturale, prendendo a prestito l’immagine utilizzata dal sociologo Georg Simmel nel 1904 per descrivere la catena di diffusione della moda: le scelte d’abbigliamento delle classi più agiate «sgocciolano», appunto, dall’alto verso il basso. Ma esistono dati empirici che confermino queste ipotesi? In Italia prova a rispondere lo storico e politologo Marco Revelli, con un breve saggio dal titolo militante: La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi, Vero! (Latenza, pagine 96, € 9). Nelle ultime elezioni europee Revelli è stato il garante della lista della sinistra radicale «L’Altra Europa con Tsipras». Nel libro, però, prevale lo studioso e, soprattutto, pesano i numeri, le statistiche. Oggi la flat tax è applicata in una trentina di Paesi, con una certa densità nell’Europa dell’Est. Ma è evidente che il caso più interessante e più significativo sia proprio quello degli Stati Uniti, la patria di Friedman e di Laffer. Revelli richiama i risultati ottenuti dal doppio mandato delle amministrazioni repubblicane di Ronald Reagan (1981-1989) e di George W. Bush (2001-2009). Entrambi tagliarono le tasse sui redditi più alti. Il consuntivo di Reagan è alterno. La manovra «lafferiana» sulle imposte, peraltro concordata con il Partito democratico, riattivò l’economia, sollevando la crescita del Pil fino al 4,1% (1988) e creando 16 milioni di posti di lavoro. Le entrate fiscali, però, calarono del 1% del Pil e di conseguenza il debito pubblico si triplicò fino ad arrivare a 2 mila miliardi di dollari. George W. Bush ereditò da Bill Clinton un budget federale in attivo di 236 miliardi di dollari; dopo il taglio delle tasse e in soli tre anni si ritrovo con un passivo di 375 miliardi. Le famiglie e lo Stato centrale cominciarono a indebitarsi, ponendo le premesse della bolla finanziaria esplosa nel 2007-2008. Oggi il debito degli Stati Uniti è pari a 15 mila miliardi di dollari ed è la mina vagante dell’equilibrio mondiale.
Resta da capire se, almeno, si sia prodotto l’effetto «sgocciolamento», se cioè la distanza tra le fasce di reddito sia diminuita. Su questo punto le risposte di Piketty e di Revelli coincidono: no. Negli ultimi trent’anni la disuguaglianza è aumentata a livello mondiale e praticamente in tutti gli Stati, come dimostra la dinamica dell’indice di Gini coefficiente che misura il grado di distribuzione delle ricchezze). Nell’ultimo vertice di Davos, nel gennaio 2014, l’associazione Oxfam ha presentato un rapporto titolato Working for the Few, «Lavorare per i pochi». Una tabella mostra come dal 1980 al 2012 negli Stati Uniti, «lafferiani» per 16 anni, la quota di reddito posseduta dall’i% più benestante della popolazione sia aumentata del 150%. Anche in altri Paesi l’élite economica si è arricchita in modo esponenziale: del 90% in Australia; tra il 5o e 1’8o% in Irlanda, Norvegia e Svezia. Dí fatto nelle 29 nazioni considerate (Italia compresa) non sì è visto alcuno «sgocciolamento», se mai una pioggia abbondante. Ma in un’altra direzione.
Dal Corriere della sera, 23 novembre 2014