6 Ottobre 2014
La Provincia
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Che ci stanno a fare gli economisti, se sbagliano sempre? Come possono pretendere di dettare soluzioni alle attuali difficoltà, se non hanno saputo prevedere la crisi che ha flagellato il mondo dal 2007 in poi e anzi ci hanno trascinati nel gorgo?
La domanda è, contemporaneamente, molto seria e molto mal posta. Eppure merita di essere affrontata proprio in questi termini. La percezione di inaffidabilità degli economisti e, dunque, dell’economia in quanto disciplina scientifica ha conseguenze profonde, per esempio, sulla disponibilità dei cittadini ad accettare riforme che, pur dolorose nel breve termine, possono aiutare i paesi in difficoltà a tornare a crescere. Lo stesso scetticismo verso la crescita economica e le variazioni del Pil, che ne è l’unità di misura più comune ancorché imperfetta, è in fondo un portato di questa crescente disistima. La questione è così rilevante che perfino un premio Nobel per l’economia, Paul Krugman, vi ha dedicato un ferocissimo articolo, pubblicato sul New York Times il 2 settembre 2009: “How Did Economists Get It So Wrong?”. Cioè: com’è che gli economisti hanno ceffato così tanto? E, poiché l’assassino torna sempre sul luogo del delitto, sul tema ha speso un ulteriore pezzo, il 14 settembre 2014, “Howto Get It Wrong”.
La retta via
La tesi di Krugman è semplice: gli economisti sbagliano perché hanno abbandonato la “retta via” dell’analisi keynesiana. E lo hanno fatto perché si sono lasciati sedurre dall’eleganza formale ma astratta delle formule matematiche.
L’economia moderna, infatti, si fonda sull’analisi della realtà (percome è misurabile attraverso i dati) e la interpreta attraverso dei modelli (da qui, per contrasto, il titolo del bel libro di Alberto Bisin, “Favole e numeri”). Ossia delle raffigurazioni inevitabilmente semplificate e tese a isolare gli effetti di specifiche variabili, anche attraverso assunzioni non di rado eroiche. La matematica, secondo Krugman, ha fatto premio sulla realtà, e la complessità delle formule sul loro oggetto.
Ricostruzione scorretta
Quella di Krugman è una ricostruzione degli eventi semplice, intuitiva e sbagliata. Ma siamo sicuri che non aver saputo prevedere la crisi equivalga al fallimento dell’economia? E, a monte, siamo sicuri che gli economisti non abbiano saputo prevedere la crisi? Partiamo da qui. La verità ed è chiaro anche dalla lettura della ancora attuale raccolta di saggi curata da Alberto Mingardi nel 2009, “La crisi ha ucciso il libero mercato?” gli economisti, o almeno alcuni, erano ben consapevoli di quello che stava accadendo.
Dove essi hanno fallito è stato per un verso nel comprendere fino infondo la tempesta perfetta che si stava addensando, e per l’altro nell’indicare “il giorno e l’ora”. Ma accusarli di ciò sarebbe ingeneroso: in fondo, non imputiamo ai medici e alla medicina di non essere riusciti a indicare con precisione il giorno e l’ora in cui un paziente ha contratto una malattia, o di non aver intuito che diverse patologie perlopiù indipendenti le une dalle altre sarebbero esplose contemporaneamente.
Questo aiuta a mettere la questione nei termini più corretti. Il j’accuse di Krugman non è ricevibile perché sottende un’agenda più politica che scientifica. Come ha scritto John Cochrane, basta fare un esperimento mentale: «Immaginate che un autorevole scienziato divenuto famoso scrittore dica che tutto quello che chiunque ha fatto nel suo campo fin dalla metà degli anni ’60 del Novecento è una totale perdita di tempo. Tutto quello che viene pubblicato sulle riviste scientifiche, che viene insegnato nei corsi di dottorato, presentato alle conferenze, riassunto nei libri di testo, e premiato coi riconoscimenti professionali, tra cui numerosi premi Nobel, è del tutto sbagliato. Al contrario, egli invita a tornare alle eterne verità di un libro piuttosto convoluto scritto negli anni ’30, nel modo in cui vennero insegnate al nostro autore quando andava all’università».
Cochrane non intende dire, naturalmente, che l’economia sia arrivata alla fine del suo percorso. Il contrario: proprio perché è una scienza viva, essa procede tra passi avanti che in vario modo ne affinano la comprensione del mondo esterno. I passi avanti implicano generalmente il superamento di quelle che in precedenza erano ritenute “verità”.
Questo processo di revisione continua è l’essenza stessa del metodo scientifico: «Ma quasi mai esso riporta al punto di partenza. Einstein rivede Newton, ma non ci manda indietro fino ad Aristotele». E una prova ne è il fatto che esistono degli economisti “new-Keynesian“, i quali cercano di tornare a Keynes, ma facendolo nel rispetto e nella consapevolezza dei passi avanti che sono stati compiuti nel frattempo arrivano a conclusioni molto diverse da quelle della “General Theory” e dei suoi epigoni. Come è, a ben guardare, del tutto naturale.
Vale la pena enfatizzare il fatto che la moderna economia è null’altro che il metodo scientifico applicato alle scienze sociali: lo studio dei dati, la loro interpretazione attraverso l’elaborazione dei modelli e nei casi in cui è possibile il tentativo di replicarli in sede sperimentale. Una delle branche più innovative e vivaci dell’economia, l’economia sperimentale appunto, deve il suo successo proprio al tentativo di riprodurre “in laboratorio” situazioni reali, per capire meglio il comportamento degli agenti economici (cioè, degli individui) sotto certe condizioni.
Realtà e caricature
E questo aiuta a rispondere meglio a Krugman e a quanti ne condividono l’argomento. L’economia moderna la si può pure continuare a chiamare neoclassica, ma è ormai un’etichetta superata e fuorviante è non solo diversa, ma opposta rispetto alla sua caricatura. Gli economisti non vivono nel culto di una concorrenza “perfetta” e dell’onnipotenza dei modelli.
Essi spendono semmai tutto il proprio tempo a studiare le imperfezioni dei mercati, e gran parte dei premi Nobel più recenti riconoscono proprio gli sforzi in tale direzione. Friedrich Hayek ha evidenziato che l’informazione dispersa e informale non può mai essere integralmente raccolta da un unico “cervello centrale”. Ronald Coase ha mostrato quanto siano rilevanti i costi delle transazioni, e come essi squalifichino ogni tentativo di semplificare oltremisura la nostra rappresentazione del mondo.
Douglass North ha sottolineato quanto siano importanti le istituzioni nel determinare i comportamenti degli individui, che Vernon Smith ha mostrato essere razionali, seppure di una razionalità “limitata” proprio dalla mai completa conoscenza delle cose. E Eugene Fama uno dei bersagli polemici di Krugman ha coniato l’ipotesi dei mercati efficienti non giù per affermarne la perfezione, ma per accendere un caveat rispetto alla pretesa di ciascuno di anticipare il corso degli eventi. Tutta la storia dell’economia moderna è una enorme professione di umiltà.
Ma questa stessa umiltà implica anche che, se i mercati sono imperfetti, imperfetti sono pure i governi. Krugman non può alimentare la sfiducia più totale verso gli economisti, e pretendere contemporaneamente fiducia incondizionata verso gli uomini politici. Hayek parlava di “presunzione fatale” in merito all’illusione di poter concentrare tutta l’informazione rilevante nelle mani dei decisori politici. Quella di Krugman appare piuttosto come una fatale ingenuità, che forse consente all’editorialista del New York Times di vergare frizzanti editoriali, ma certo appare stonata e incongrua in bocca all’economista Premio Nobel.
Da La Provincia, 5 ottobre 2014
Twitter: @CarloStagnaro