L’illusione di una legge di stabilità “americana”

A conferma della legge ferrea della democrazia, le poche risorse disponibili si riversano in nuovi capitoli di spesa corrente

18 Ottobre 2016

IBL

Argomenti / Politiche pubbliche

L’orizzonte temporale dei leader politici non va mai al di là del prossimo appuntamento elettorale. Se c’è una legge ferrea della politica democratica, è questa. È una legge che ha avuto poche, straordinarie eccezioni.

Fra queste non figurano le politiche di bilancio programmate per il triennio 2017-2019, che ripercorrono le strade battute nello scorso biennio. Allargando lo sguardo, però, quel che deve preoccupare sono le implicazioni di medio periodo di una ulteriore legislatura persa dal lato della crescita, della finanza pubblica e quindi del paese.

La legge di stabilità appare scritta con in testa l’idea che l’economia possa essere sostenuta da una politica fiscale espansiva in misura modesta, ma pur sempre crescente. Da questo punto di vista, il fatto che il disavanzo pubblico passi dal 2,6% del 2015 al 2,4% del 2016 e al 2,0% del 2017 (al netto delle spese di carattere non ricorrente che lo porterebbero, Commissione Europea permettendo, al 2,3%) è sostanzialmente irrilevante. Ben più importante è notare che il disavanzo strutturale (corretto cioè per l’andamento del ciclo economico) passa dallo 0,7% del 2015, all’1,2% del 2016 e lì rimane, o quasi, nel 2017.

L’argomento principe dei fautori della crescita a debito richiama l’esperienza statunitense. Si sostiene che la configurazione della politica economica di Obama sarebbe alla radice di tassi di crescita ormai stabilmente superiori al 2% (pur ben lontani da quelli prevalenti in altri periodi della storia Usa). È un argomento che ha un fondamento ma in senso molto diverso da quello che si vorrebbe far credere. Alla radice della crescita americana non c’è una intonazione particolarmente espansiva del bilancio pubblico (il disavanzo strutturale si attesta in prossimità del 3% ed è atteso non variare significativamente negli anni a venire). C’è, in primo luogo, una forza (quella tecnologica) ed una consapevolezza: all’indomani di una crisi bancaria è imperativo sgombrare il campo dalle attività economiche nate nel momento della formazione della bolla speculativa e prive di qualunque riferimento ai fondamentali economici. Sono circa 400 le banche espulse dal mercato negli Usa dal 2008 ad oggi. Il sistema, in altre parole, è stato ripulito con relativa rapidità e decisione e ha così potuto riprendere a funzionare.

Non è stato questo il nostro caso. L’approccio tutto difensivo alla ineludibile ristrutturazione del sistema bancario (salvataggi, aggregazioni difensive, veri e propri casi di accanimento terapeutico bancario) è fra i principali fattori di freno dell’economia italiana. L’incapacità di affrontare il problema per quello che è (banche inefficienti destinate in parecchi casi ad uscire dal mercato e, nello stesso tempo, lavoratori da tutelare, riconvertire e possibilmente ricollocare) impedisce al processo economico di riprendere a funzionare correttamente.

In questo quadro, concentrare le poche risorse disponibili e riversare tutta la residua credibilità internazionale del paese per ottenere margini ulteriori di flessibilità (cioè per poter fare ulteriore debito) è miope. A conferma della legge ferrea della democrazia, le poche risorse disponibili si riversano in nuovi capitoli di spesa corrente (che si tratti di “mamme domani” o delle nuove assunzioni nel settore pubblico).

Non ha funzionato in passato, non funzionerà nemmeno questa volta.

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