L’importante è partecipare

Il fallimento delle riforme delle partecipazioni pubbliche ci insegna che il potere piace a chi ce l'ha

22 Maggio 2019

IBL

Argomenti / Diritto e Regolamentazione Teoria e scienze sociali

Alla fine del 2017, il ministero dell’economia e quello della pubblica amministrazione annunciavano che, dalla ricognizione effettuata per avviare la revisione straordinaria delle società partecipate ‘inutili’ voluta dalla riforma Madia, una su tre avrebbe chiuso. Una su tre, infatti, non rispettava i criteri stabiliti dalla riforma per continuare a operare.

Due anni dopo, un nuovo rapporto del ministero dell’economia sull’attuazione della riforma fa sapere che più di un quarto delle partecipazioni pubbliche che avrebbero dovuto chiudere è ancora lì, con le amministrazioni locali che non hanno intenzione di vendere le loro quote, in barba a qualsiasi criterio.

Tra la responsabilità e le cause di questa vicenda c’è una sottile differenza.
Quanto alle responsabilità, il fallimento della riforma grava sugli ultimi governi, a tutti i livelli, compresi quelli territoriali e compreso il governo nazionale che l’aveva ideata, e poi via via annacquata sempre più.

Il governo Renzi, che aveva annunciato la chiusura delle partecipate locali additandole, non a torto, come una fonte di spreco e di rendite di potere ingiustificata, ha tuttavia approvato un provvedimento a maglie larghe, destinato a molte ambiguità interpretative: a partire dal concetto di interesse pubblico come requisito per rimanere attive e dall’esclusione, dall’ambito di applicazione, delle unità economiche non organizzate in forme di società in senso stretto (consorzi, aziende di servizi, fondazioni, etc.). Il governo Gentiloni ha scelto di abbassare la soglia di fatturato minimo e consentire ai presidenti di regione di poter salvare singole società.

Da ultimo, la legge di bilancio del governo Conte ha prorogato la scadenza di dismissione al 31 dicembre 2021 per le società che, pur non rispettando i requisiti previsti per rimanere attive, non sono stabilmente in perdita. Basta essere finanziate dalle PA partecipi per non essere in perdita e si guadagnano ancora tre anni per operare. Chi vivrà vedrà.

A queste responsabilità si aggiunge l’inerzia delle amministrazioni locali che, secondo il rapporto, in alcuni casi non hanno nemmeno risposto al censimento.

Proprio responsabilità così diffuse devono indurci a distinguere le colpe specifiche dalle cause più generali.

Vuol dire qualcosa che i governi, a ogni livello e con ogni maggioranza, hanno agito coerentemente gli uni con gli altri per vanificare la riforma. Vuol dire che dal potere politico e dalla spesa pubblica, di cui le partecipate sono manifestazione a livello locale, è difficile tornare indietro. Coloro che ne traggono vantaggi se li tengono stretti, come dimostra appunto la resistenza degli enti territoriali a dismettere le quote societarie. C’è una sorta di legge di Wagner che non vale solo per la spesa, ma anche per il controllo su decisioni di produzione, rapporto coi fornitori, assunzioni. Dalla vicenda delle partecipate deriva una lezione che sarebbe utile tenere a mente, ogni volta che il perimetro di spesa e di potere politico si sposta un po’ più in là. Fare un singolo passo indietro è così difficile, che su ogni passo in avanti bisognerebbe meditare a lungo.

22 maggio 2019

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