L'Occidente non è al tramonto, l'unico problema è che si odia troppo

Un pamphlet di Panebianco e Belardinelli sulle risorse dell'Europa per costruire il mondo del futuro

20 Maggio 2019

La Stampa

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

L’Europa in particolare, e l’Occidente in generale, sono condannati al declino? Angelo Panebianco e Sergio Belardinelli, ne All’alba di un nuovo mondo, non aderiscono alla «cupa profezia dell’incipiente tramonto dell’Occidente». Al contrario, nella loro prospettiva i valori della società libera restano la carta migliore da giocare, anche in un «nuovo mondo» più frammentato e complesso di quello di ieri.

Solo un ordine liberale, scrive Panebianco, ha «le potenzialità per affermarsi come ordine legittimo» oggigiorno, perché «promette alle persone qualcosa a cui tutti ambiscono, a qualunque latitudine siano e a qualunque ambito culturale appartengano». Offre cioè garanzie «a protezione di un corredo minimo di diritti individuali» ed «erige barriere contro l’esercizio violento e arbitrario del potere ai danni delle persone comuni». Quello del governo limitato è un ideale parsimonioso, vuole «solo» consentire uno svolgimento ordinato alla vita delle persone, mettere a punto quelle condizioni di certezza senza le quali non c’è modo di provare a migliorare ciascuno la propria vita, che è poi quello che tutti desideriamo.

Gli autori sanno bene che l’Occidente non è soltanto le Costituzioni e le carte dei diritti, la pacificazione del conflitto politico con il rito delle libere elezioni e l’emancipazione dell’economia dai privilegi distribuiti dal sovrano. E tuttavia ritengono che mentre la tirannide è ubiqua, in questo pezzo di mondo si è intravista la possibilità di qualcosa di diverso. Sergio Belardinelli ne rintraccia le radici più profonde non solo nel messaggio cristiano, ma nella sua ibridazione, nel fatto che esso «viene subito innervato dalla tradizione ellenistica» e riesce a farsi particolare e universale, all’incrocio fra «la tradizione ebraica, la filosofia greca, la tradizione romana, la fede cristiana, le libertà moderne». Così l’identità europea si sviluppa come «il contrario di un contenuto rigido, fissato magari una volta per tutte», una sorta di campo di gioco in cui tutto diventa possibile, se si ammette «l’ideale dell’uomo europeo, unico e irripetibile nella sua libertà e nella sua dignità».

La crisi dell’Occidente, oggi, è una sorta di incapacità di guardarsi allo specchio. «C’è un odio di sé dell’Occidente che si può considerare come qualcosa di patologico», ebbe a scrivere Joseph Ratzinger, e quest’odio travolge la storia, «vede soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo», senza cogliere, per l’appunto, quel senso della libertà umana che è tanto più presente in questa parte del mondo che altrove.

Belardinelli cita Leo Strauss e con lui ritiene che l’identità occidentale sia Gerusalemme e Atene assieme: inclusi i conflitti, anzi soprattutto i conflitti, autentiche difficoltà di «traduzione» fra la lingua della filosofia e quella della rivelazione. Qualcuno pensava che valesse sempre la pena di leggerei libri in traduzione, perché in quel caso beneficiavano del lavoro creativo di due intelligenze e non di una soltanto. Lo stesso sostiene Belardinelli del mondo letto e raccontato dalla ragione e dalla fede insieme, e talvolta dalla ragione contro la fede e viceversa, in un tragitto avventuroso alla cui conclusione c’è la scoperta dei tanti limiti, e anche dei pochi pregi, dell’essere umano.

Il fatto che la secolarizzazione europea abbia prodotto il totale sradicamento della religione non è, dunque, un’occasione di emancipazione. La stessa Chiesa cattolica (e non mancano, nella riflessione di Belardinelli, spunti critici sull’attuale papato) si trasforma in un dipartimento di sociologia. Presenta lei per prima la sua fede come uno strumento di governo della realtà, evitando di «dire l’indicibile», di costringere la razionalità moderna al confronto col sacro e con l’immanente. Dobbiamo al cristianesimo il senso del tragico, e al senso del tragico il senso del limite: anche del limite del potere. La società libera può sopravvivere senza? Quando il mondo si riduce a una specie di meccano, a un gioco che ha solo bisogno dell’attrezzo giusto, la libertà va in fumo. Lo stesso invito all’accoglienza diventa un appello irricevibile se non siamo più convinti della «dignità di ogni uomo». Altro che Gerusalemme o Atene, rischiamo di tornare a Sparta. Al prevalere del gruppo sull’individuo, a una lettura dei problemi sociali sorda alle esigenze e ai problemi dei singoli, a considerare uomini e donne nient’altro che pedine sulla scacchiera: da disporre in una maniera o nell’altra, senza badare al loro autonomo principio di moto. La premessa del dispotismo è ignorare la tragicità dell’esistenza, la difficoltà della libera scelta, l’inevitabilità degli errori. Guai se, con Dio, si perde il senso della nostra imperfezione.

da Tutto libri / La Stampa, 18 maggio 2019

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