Non c’è nulla di più pericoloso, oggi, che affidarsi alla decrescita. La parola non va più così di moda, come solo pochi anni fa. Ma rischia di aver ormai permeato una certa cultura diffusa. In fondo le stesse parole di Papa Francesco evocano questo sogno arcadico della decrescita. Supposta felice. La sua enciclica sull’ambiente è figlia di quei principi. Basta sfogliare un giornale per vedere diffusi qua e là i germi di un principio pericolosissimo: smettiamola con questa condanna alla crescita economica, accontentiamoci e rispettiamo ciò che ci è stato dato. Come se l’opzione dello sviluppo, economico, ambientale, sociale, sia binario: zero fino a ieri, uno da oggi in poi. Ahimè non è così, lo sviluppo sociale ed economico di un popolo vanno a braccetto e sono figli di conquiste progressive e faticose. L’Italia di Carlo Levi e del suo Cristo si è fermato a Eboli è quella di 70 anni fa. Eppure così diversa, così arretrata. Oggi lo sviluppo economico, la tecnologia, la diffusa ricchezza hanno reso l’Italia forse più diseguale (è tutto da vedere), ma meno arretrata. Preferite forse i consigli medici improvvisati dei due «medicucci» di Eboli e le prescrizioni targate multinazionali del farmaco?
La teoria della decrescita nasce in Francia all’inizio di questo millennio e ha diffuso contagio in Italia e Spagna. Non si tratta di una crescita economica rallentata, ma di una scelta volontaria e politica di crescere meno. In questo senso essa è figlia di una serie di movimenti di opinione nati invece negli Stati Uniti. E la sintesi dei numerosissimi attivisti anti sviluppo: dai comitati no-auto a quelli anti-spot, dai pasdaran dell’agricoltura biologica ai sacerdoti delle energie rinnovabili. La decrescita critica aspramente i paradigmi del capitalismo e del mercato, e altrettanto fa per le costruzioni keynesiane: del tipo più spesa pubblica per ottenere maggiore crescita.
Per questo motivo i teorici della decrescita sono l’antitesi perfetta di coloro che credono nel mercato. Essi pensano che qualcuno deve decidere per noi, in cosa e come frenare il nostro naturale moto nell’andare avanti. Non dobbiamo usare le auto, non possiamo concimare i campi, dobbiamo razionare l’acqua, siamo obbligati ad usare solo l’energia del sole. Ma a che prezzo? Dove fermiamo l’asticella? Posso utilizzare un elicottero per portare all’ospedale un infermo? Certo che sì: ma come lo pago? Chi genera la ricchezza per produrlo e per comprarlo? Dove impieghiamo i centomila dipendenti di Porsche e Ferrari che producono non solo auto, ma lusso a 400 cavalli? E perché produrlo? Dove fermare le ambizioni di un imprenditore che vuole fare sempre di più? Cosa ha di malefico, in sé, la ricchezza se metro del successo?
Vedete, circola la balzana idea che la decrescita possa mitigare la supposta diseguaglianza che affliggerebbe la nostra società. Si tratta di un mito. Come ha recentemente ricordato in uno studio Alberto Mingardi, negli Stati Uniti, il Paese ritenuto più diseguale, il processo di accumulazione della ricchezza non ha affatto riguardato solo il fatidico 1% dei più ricchi. Tra il 1980 e il 2005 sono stati creati 40 milioni di posti di lavoro che prima non c’erano. L’aumento del reddito mediano delle donne non bianche è stato del 62% passando da 10200 dollari a 16500. La morale è che l’impetuosa crescita economica dell’ultimo quarto di secolo ha innalzato il livello globale e gli stili di vita dell’intera popolazione. La considerazione molto semplice che si deve dunque fare è che una società è più giusta non se tutti sono più uguali, ma se mediamente per tutti cresce il reddito anche a costo di divaricazioni tra i primi e gli ultimi. Altro che decrescita. Lo sviluppo non è una condanna, è un’opportunità per i più deboli di godere di ciò che solo pochi anni fa era considerato un privilegio per pochi. Solo così possiamo sperare che Cristo non si fermi ad Eboli.
Da Il Giornale, 28 febbraio 2016