La solidità delle finanze pubbliche è una questione esclusivamente contabile? Ieri sulla Stampa abbiamo letto che i ministri dell’economia di Francia, Italia, Spagna e Portogallo hanno scritto alla Commissione europea per una questione apparentemente oscura. Secondo il trattato «Fiscal Compact», i diversi Paesi sono tenuti a raggiungere un obiettivo di medio termine, che coincide col «pareggio strutturale del bilancio»: cioè corretto per il ciclo economico e al netto delle spese una tantum (come quelle per i danni del terremoto).
Per stimare la velocità di avvicinamento all’obiettivo, è necessario confrontare il Pil effettivamente prodotto in un certo anno con quello che si sarebbe realizzato in assenza di perturbazioni cicliche (il cosiddetto «prodotto potenziale») e quindi considerare gli effetti di queste perturbazioni sulla finanza pubblica.
A seconda che si usi una metodologia o un’altra, la velocità di avvicinamento all’obiettivo di medio termine cambia. Il metodo adottato a livello europeo è frutto di un accordo fra i governi, che i Paesi latini vorrebbero rivedere per avere un sistema di misurazione che li avvantaggi.
Mentre il Pil realizzato lo possiamo, in qualche modo, osservare, il prodotto potenziale è frutto di una serie di ipotesi. Sulla base di altre ipotesi, si ragiona sugli effetti sui saldi di finanza pubblica e sul suo andamento nel tempo. Paul Krugman racconta spesso di aver fatto l’economista perché si era appassionato alla «psicostoria» di Asimov. I governi però non hanno ancora imparato a predire il futuro.
Un dibattito all’apparenza tecnico ha quindi ragioni tutte politiche. La spesa pubblica è uno strumento per creare consenso. Perché l’operazione riesca, è fondamentale che chi ne trae beneficio se ne accorga e ringrazi, e chi invece paga i conti non se ne risenta troppo. Per il politico, l’ideale è che la spesa sia finanziata da chi non può lamentarsi semplicemente perché ancora non esiste: i nostri figli e nipoti.
La moneta unica ha ridotto la libertà d’indebitarsi. Siccome il dissesto di un Paese dell’eurozona condiziona il valore della moneta che usano tutti, è stato costruito un insieme di regole per evitare situazioni estreme.
Queste norme regolano l’azione dei politici, ma vengono amministrate a loro volta da altri politici. Cane non mangia cane: il rigore delle regole europee di bilancio è spesso rimasto sulla carta.
Non è improbabile che la battaglia sulla «flessibilità» finisca con un armistizio onorevole. Il guaio è che per il nostro Paese è la battaglia sbagliata.
Nel 2011, con lo spread a quota 574, eravamo sull’orlo del precipizio non per colpa dell’Europa, ma perché i mercati non si fidavano più di noi.
Negli ultimi anni, la Bce ha comprato titoli di Stato italiani per volumi che eccedevano le nuove emissioni. Perciò i mercati hanno smesso di chiedersi se le nostre spese fossero «sostenibili». A un certo punto, però, le politiche monetarie non convenzionali finiranno. Che cosa accadrà allora? Non c’è riforma del fiscal compact che potrà aiutarci, se dovesse diffondersi la paura che l’Italia non è in grado di pagare i suoi debiti.
Perché un creditore si fidi di un debitore, quest’ultimo deve essere credibile nelle sue promesse. Proprio mentre montava la tempesta finanziaria del 2011, il Parlamento cambiò l’articolo 81 della Costituzione, provando a rafforzare l’impegno per l’equilibrio di entrate e uscite. L’obiettivo sin qui è stato allegramente disatteso, ora il nuovo Def lo traguarda per il 2019.
Prestereste del denaro a uno Stato che vi garantisce l’equilibrio fra entrate e uscite, e poi lavora per cambiare la definizione della parola «equilibrio» sul dizionario?
Da La Stampa, 6 Maggio 2017