Il recente accordo tra l’Agenzia delle Entrate e Google, che ha accettato di versare all’erario 306 milioni d’imposte addizionali per il periodo 2002-2015, ha ridato fiato alle trombe dei giustizieri fiscali del web, uno schieramento che continua ad arruolare nuovi adepti. E poiché la mamma dei gabellieri è sempre incinta, ecco spuntare l’ennesima proposta: la bit tax, che non è – come si potrebbe ragionevolmente assumere – un’imposta caratterizzata da barely intentional thinking, cioè da un’elaborazione a malapena razionale, quanto piuttosto un tributo che adotta come presupposto lo scambio dei bit, ossia degli atomi d’informazione che galoppano su internet.
La trovata, a ben vedere, è tutt’altro che nuova: la sua prima formulazione – a opera di Arthur Cordell: all’epoca un oscuro consulente del ministero dell’Industria canadese, oggi altrettanto oscuro, ma non più in forza al governo di Ottawa – risale alla metà degli anni Novanta, quando le pagine web erano distese di gif lampeggianti; Google era di là da venire e gli altri motori di ricerca erano un’incarnazione ingentilita delle pagine gialle; i social erano sconosciuti e le uniche occasioni di conoscenza virtuale erano fornite dalle prime chat; i video erano una rarità, sicché persino i siti porno somigliavano a fotoromanzi. È facile comprendere, allora, perché la pretesa di applicare alla rete di oggi uno strumento ideato in quel contesto equivalga alla pretesa di scongelare un Neanderthal per fargli accendere il barbecue.
Cordell immaginava di tassare indiscriminatamente tutto il traffico dati, attribuendo ai provider di connettività l’incarico di applicare il tributo e incassarlo per conto dei singoli governi; e ne individuava anche la misura – 0,000001 centesimi di dollaro per ogni bit scambiato – sia pure ammettendo che l’aliquota si sarebbe potuta adeguare in seguito alle esigenze di gettito, nonché al livello di sviluppo delle attività telematiche. I nuovi sostenitori della bit tax non hanno fatto altro che ripescare quella proposta dagli archivi, senza nemmeno prendersi la briga di aggiornare l’aliquota. Il che conduce a esiti paradossali: supponiamo di voler vedere online “Bringing Up Baby”, il capolavoro di Howard Hawks con Katharine Hepburn e Cary Grant, disponibile per una manciata di euro: se ipotizziamo un trasferimento di dati, per una versione a definizione standard, di circa 1 gigabyte, il prelievo complessivo ammonterebbe a 80 euro – una cifra che sarei disposto a spendere solo con la Hepburn rediviva tra le mie braccia e il dottor Cordell in persona a massaggiarmi i piedi.
Ma la questione dell’entità dell’imposta è invero secondaria: il principale problema della bit tax è la sua radicale inattitudine a intercettare manifestazioni di ricchezza e, perciò, di capacità contributiva: si colpisce il traffico di dati perché esso potrebbe rappresentare una transazione economica, a prescindere dal fatto che una transazione economica sia effettivamente stata posta in essere. In questo senso, il meccanismo ricorderebbe quello del cosiddetto equo compenso per copia privata, un tributo applicato preventivamente a tutti i dispositivi di memorizzazione per il solo fatto che essi possano essere impiegati per immagazzinare materiale coperto da diritto d’autore – un arzigogolo, peraltro, recentemente censurato dalla corte di giustizia. Oppure ancora, per alludere a una fattispecie del diritto penale goliardicamente nota a chiunque sia passato per le aule di giurisprudenza, si pensi al possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli, di cui all’art. 707 del codice.
La bit tax generation ignora una realtà chiara a tutti gli utenti della rete: non tutti i bit sono uguali – un principio spesso travisato, sia detto per inciso, anche dai talebani della neutralità della rete. Il medesimo trasferimento di dati può essere frutto dell’acquisto di un bene digitale (un libro elettronico), della fruizione di un servizio gratuito ma che genera ricavi pubblicitari per il fornitore (un video su Youtube o su Facebook) o ancora di una comunicazione che non riveste alcuna rilevanza economica (una mail inviata e ricevuta attraverso il client, senza neppure accedere al sito web del provider). Proprio per questo motivo, la bit tax sarebbe con ogni probabilità contraria al dettato costituzionale, così come sarebbe illegittima un’imposta sui passi effettuati che non considerasse la qualifica del camminatore: marciatore retribuito, venditore ambulante o semplice amante dei paesaggi bucolici. Fortunatamente, passeggiare è un’attività ancora libera da imposte: ed è un passatempo certamente preferibile alla progettazione di grotteschi congegni fiscali per mercati che non si comprendono appieno.
Da Il Foglio, 10 maggio 2017