La bulimia dei diritti e il diritto al cibo

Una delle malattie contemporanee è la bulimia dei diritti: se una cosa è buona, deve diventare un diritto

30 Marzo 2015

IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Se una cosa è desiderabile, dev’essere un “diritto”.

Chi negherebbe mai l’importanza del cibo, l’auspicio che non si muoia o non ci si ammali per denutrizione e malnutrizione? 

Ma una delle malattie contemporanee è la bulimia dei diritti: se una cosa è buona, deve diventare un diritto. 

Così anche il diritto al cibo, il cui inserimento in Costituzione è stato accarezzato poco tempo da dal ministro per l’agricoltura Martina e ieri dal ministro per le riforme Boschi. Grazioso omaggio della politica a Expo2015, primo caso di riforma costituzionale dettato dalla circostanza di un grande evento. Oggi, con l’Expo, in Costituzione il diritto al cibo; domani, arrivassero le Olimpiadi, il diritto allo sport.

Ma perché un diritto sia tale, ad esso deve corrispondere un’obbligazione sociale. Il mio diritto di proprietà è l’obbligo per la società di rispettare l’autonomo uso che faccio dei miei beni. Il mio diritto di parola è l’obbligo per la società di non chiudermi la bocca. Il mio diritto all’associazione è l’obbligo per la società di non impedirmi di unire le forze con chicchessia.

Quale obbligo corrisponde al “diritto al cibo”? Cosa garantirebbe di diverso rispetto ad ora una simile, solenne proclamazione? Chi, soprattutto, si farebbe portatore di tale garanzia, e con quali mezzi?

Che l’angolo di mondo nel quale viviamo sia riuscito a sfamare, negli ultimi due secoli, una popolazione crescente, è uno dei grandi miracoli della storia umana. Ancora nell’Italia del 1922 era sottonutrito un italiano su cinque. Non si stava meglio quando si stava peggio: la carne era per pochissimi e così il pane bianco,  era diffusa la pellagra, dovuta all’esagerata intensità nel consumo di mais, con la polenta che era pane e companatico di intere regioni, il pesce era rigorosamente “a chilometro zero”, nel senso che lontano dal mare non ci arrivava proprio.

Mai come oggi, al contrario, la libertà di nutrirsi è a disposizione di tutti. Oggi gli italiani non solo mangiano più e meglio, ma per mangiare impegnano quote sempre meno rilevanti del loro reddito. Nel 1861, due terzi del reddito medio italiano era destinato al cibo; agli inizi del Novecento il 46 per cento; negli anni Settanta il 30 per cento. Oggi, non più del 15 per cento.

E’ una rivoluzione silenziosa che non è stata governata da “diritti”, ma semplicemente dalla necessità e dalla possibilità di scambio. La domanda di cibo per ogni portafoglio ha alimentato la sua offerta. L’innovazione tecnologica ha consentito che questa offerta fosse vieppiù plurale, diversificata e ottimizzata. Lo spreco di cibo nei paesi in via di sviluppo è, secondo la FAO, dovuto alle scarse metodologie agricole nella fase pre raccolta e alle inappropriate tecnologie post-raccolta, come trasporti e immagazzinamento. Il “diritto al cibo” ha quindi tra i suoi numi tutelari non qualche padre costituente, ma Clarence Birdseye, l’inventore del processo che ha reso possibili i cibi surgelati.

Non esiste Paese occidentale che abbia in Costituzione il “diritto al cibo”.  “Ad oggi sono 23 i Paesi che hanno in Costituzione questa voce, dal Brasile all’India al Messico: nessun Paese europeo tra questi”, ha spiegato il Ministro Martina. Fossimo in lui, ci chiederemmo in quali di questi Paesi – quelli che in Costituzione il “diritto al cibo” ce l’hanno, e quelli che no – la popolazione è meglio nutrita. Forse, le curve di domanda ed offerta sono state più importanti del confezionamento di nuovi “diritti”.

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