Come mai un’intera classe dirigente rifiuta l’idea del vincolo di bilancio? Il fatto che il nostro Paese sia tornato ad avere crescita positiva (+1,8%) è un risultato che il governo esibisce in vista delle prossime elezioni. Ma il prodotto è ancora inferiore ai livelli pre-crisi (2007). Già allora la situazione non era rosea: fra il 2000 e il 2007 noi crescevamo a un tasso medio dell’1,6%, meno della media europea. È improbabile che la velocità di crociera dell’economia italiana aumenti sensibilmente, se non si riduce la pressione fiscale, che è elevatissima (il 45% del Pil). Dopo la Grecia, l’Italia è il Paese che più ha aumentato le imposte, fra il 2005 e il 2015.
Non è certo una bizzarria, dunque, che sia Silvio Berlusconi sia Matteo Renzi parlino di tagliare le tasse. Luigi Di Maio ieri a La Stampa ha detto che «ciò che ci piace è poter fare investimenti in deficit come fa Trump. Siamo pronti a una manovra choc in deficit per abbattere le tasse».
Questa è un po’ la sintesi del programma unico di tutti i partiti. Destra e sinistra, i cosiddetti «populisti» e il cosiddetto «establishment» hanno sensibilità diverse su temi come l’immigrazione, ma convergono su un’unica ricetta di politica economica: fare più deficit. L’articolo 81 prevede l’equilibrio di bilancio fra entrate e uscite. Nascondendosi dietro la polemica con l’Europa matrigna, i partiti di fatto dichiarano apertamente di non voler rispettare il dettato costituzionale. Il che oggi è paradossale non solo per quanti solitamente alla Costituzione appaiono molto affezionati. Se davvero cresciamo più delle previsioni, il percorso di risanamento della finanza pubblica andrebbe accelerato. Anche Keynes sarebbe d’accordo. Invece, rispetto al Def del maggio scorso, il deficit incorporato nella legge di bilancio è maggiore. Forse Katainen, trattato nei giorni scorsi come un nemico della patria, non ha tutti i torti a preoccuparsi.
E’ diventata un articolo di fede l’idea che rigore della finanza pubblica e crescita sono incompatibili. Alziamo lo sguardo oltre le Alpi: la locomotiva d’Europa è la Germania, che è in pareggio di bilancio. E che ha un debito pubblico che è il 68,3% del Pil, quasi la metà del nostro, che è il 132,6% del Pil. Com’è ovvio, un debito più elevato è un debito più costoso da finanziare.
Tutti sappiamo che le promesse dei politici spesso non vengono mantenute. Ma che la totalità della classe dirigente italiana voglia fare più deficit non tranquillizzerà chi ci presta denaro, e naturalmente immaginerà che diventi più difficile averlo indietro.
Tagliare le tasse dev’essere una priorità per chiunque governerà nel 2018, ma per ridurre le entrate bisognerebbe però anche ridurre le uscite: cioè la spesa.
Invece anche l’espressione «spending review» è scomparsa dal dibattito. Non si parla nemmeno più di tagliare gli sprechi. Per tutte le forze politiche, lo status quo è intoccabile. E’ una posizione ragionevole? Davvero tutto ciò che fa lo Stato italiano lo fa bene e in modo efficiente? Diciamo la verità: è persino impossibile provare a pensarlo, senza che scappi un sorriso.
Si capisce che il politico preferisce spendere di più (incassando consenso) che provare a ridisegnare il perimetro dello Stato (perdendo inevitabilmente il favore di qualche gruppo sociale). Eppure anche la credibilità dovrebbe avere un valore, in termini elettorali. Nessuno di noi si farebbe vendere la Fontana di Trevi da Totò. Come mai invece siamo pronti ad acquistare a scatola chiusa le virtù del «deficit spending»?
La spiegazione sta forse nel fatto che ai nostri leader l’Italia appare un Paese di vecchi, che come tutti i vecchi rimpiangono il passato. La nostalgia inganna. Sono proprio le politiche di deficit spending che hanno fatto di noi ciò che siamo: un Paese stagnante con un elevatissimo debito pubblico. La malattia e la cura non possono coincidere.
Da La Stampa, 18 novembre 2017