La combriccola della flat tax

Ricognizione ideologica e antropologica dell'Istituto Bruno Leoni

13 Luglio 2017

Tempi

Alan Patarga

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Adesso che in Italia è (nuovamente) passato di moda definirsi liberali, o peggio liberisti, sono rimasti quasi soltanto loro. Loro, quelli dell’Istituto Bruno Leoni, continuano a predicare le loro “idee per il libero mercato”, a tenere in evidenza sul sito brunoleoni.it il contatore aggiornato secondo dopo secondo del debito italiano, a suggerire alla politica soluzioni (almeno in apparenza) semplici a problemi complessi. Come quello fiscale: la proposta di una flat tax al 25 per cento, con la contestuale abolizione di Imu e Irap e il sostanziale mantenimento della sanità gratuita per buona parte della popolazione (tranne i più ricchi, che dovrebbero assicurarsi), è affascinante. Piace a più d’uno nel centrodestra, dove la riffa delle aliquote (15-20-25) è aperta, non dispiace nemmeno a qualcuno più a sinistra, ma non è difficile immaginare che alla fine la proposta resterà nel libro dei sogni, almeno per qualche anno ancora.

Loro, quelli dell’Ibl, d’altro canto alle delusioni ci sono abituati. Si può dire che siamo nati, dal punto di vista culturale, proprio sulla base di una delusione», dice a Tempi Alberto Mingardi, direttore e fondatore dell’Istituto. Correva l’anno 2003, Berlusconi era al governo già da due anni e della rivoluzione liberale promessa nove anni prima ancora si vedeva poco o nulla. Ministro dell’Economia era Giulio Tremonti, che già allora brandiva i dazi per salvare le imprese italiane dalla concorrenza cinese». «Pubblicammo sul Foglio un “Manifesto per dire no al protezionismo” – ricorda Mingardi – e fu di fatto il nostro primo atto pubblico». L’Ibl, formalmente, nasce quell’anno. Mingardi all’epoca ha 22 anni e sta finendo l’università. Gli altri due che partecipano alla fondazione sono Carlo Stagnaro, un giovane ingegnere genovese, e il filosofo Carlo Lottieri, già allora il più brillante esponente del pensiero libertario italiano. «Ci conoscevamo già, perché conoscersi tra libertari in Italia non era così difficile: eravamo, e siamo tuttora, pochissimi», racconta Mingardi. L’idea di fondare un think tank, un pensatoio liberale e liberista nel nostro paese, è sua: a 21 anni, con l’aiuto dell’ex ministro Antonio Martino, vola a Washington per un’internship alla Heritage Foundation, uno dei più importanti templi mondiali del pensiero liberale, fucina di idee e uomini per l’amministrazione Reagan e per buona parte dei presidenti repubblicani a seguire. Il modello lo convince, il difficile sta nel replicarlo. Le idee ci sono. Lo strumento, un centro studi indipendente, anche. Mancano i mezzi, però. «Nel 2003 riuscimmo a mettere insieme quattro finanziatori, di cui uno si rivelò un “sòla”, e un altro che invece ho piacere di ricordare: Franco Forlin, un piccolissimo imprenditore torinese che mise non soltanto quel che poteva in termini di denaro, ma anche di organizzazione».

Che poi organizzazione è una parola grossa: niente ufficio, almeno all’inizio, la cassa affidata a Lottieri, il più anziano del gruppo. «Se possiamo definirla cassa, visto che i soldi per organizzare convegni ed eventi li teneva in un pacchetto di Marlboro… però a pensarci bene così potremmo dire che quei soldi arrivavano dalle multinazionali del tabacco», ride Mingardi. L’accusa è arrivata più volte: vale dappertutto, ancora di più in Italia. Se difendi il mercato, se propugni ricette liberiste, evidentemente sei sul libro paga di qualche multinazionale. Sull’Ibl questo sospetto aleggia da sempre, e loro, da sempre, rispondono con un «magari» per sgomberare il campo dagli equivoci.

Nomi (e volti) noti
«In realtà non avere soldi, col senno di poi, è stata una fortuna», spiega Mingardi. «Di solito questi centri studi partono con grandi mezzi, con qualcuno che investe risorse per portare avanti un’agenda. Ma si finisce chiusi in un ufficio a sfornare studi che nessuno legge. La costante necessità di trovare fondi, invece, negli anni ci ha sempre spinto fuori, a incontrare persone e a chiedere loro quel che avevano da darci: tempo e buona volontà i più giovani, denaro chi poteva». I seminari Mises (dedicati alla figura dell’economista Ludwig von Mises) nascono così: mettere insieme giovani promettenti, formarli, in qualche modo reclutarli, e raccogliere negli anni i frutti. «Se oggi il caso Alitalia è intellegibile al grande pubblico – sottolinea Mingardi – è perché c’è uno come Andrea Giuricin che sa raccontarlo, spiegando cosa non è andato e con quali ricette (liberiste ovviamente, ndr) si può affrontare. Vale per lui e per molti altri».

Giuricin, che insegna Economia dei trasporti all’Università Bicocca di Milano, in questi mesi di nuova crisi della compagnia di bandiera è ovunque: in tv, sui giornali, intervistato oppure autore di commenti, anche sul Wall Street Journal. Sulla bibbia della finanza scrive lui, ma anche altri dell’Ibl, a cominciare dallo stesso Mingardi, che peraltro siede nel board della Fondazione Telecom con la carica di vicepresidente. Dal mondo Ibl provengono in molti: il quarantenne Stagnaro è oggi capo della segreteria tecnica del ministero dello Sviluppo economico. Nominato da Federica Guidi e riconfermato da Carlo Calenda. Il ddl concorrenza è (anche) farina del suo sacco. Lottieri, più ideologo e meno avvezzo alle relazioni, scrive per varie testate, pubblica saggi, insegna all’università (Siena e Lugano) e da ex leghista della prima ora (come gli altri due fondatori) propugna ora una soluzione elvetica per l’Italia e l’indipendenza del Veneto, a patto che tutto rispetti il verbo libertario: meno (o magari niente) Stato, più mercato. Gli altri sono tutti sotto i quaranta: Pasquale Annicchino, un altro ricercatore, fa parte del Consiglio del ministero dell’Interno per i rapporti con l’islam, è autore di saggi per il Mulino, insegna nel Regno Unito e a New York ed è uno dei massimi esperti italiani di libertà religiosa. Rosamaria Bitetti insegna alla Luiss, dove è ricercatrice, ed è economista all’Ocse. Luciano Capone, che all’Ibl è transitato, ora lavora al Foglio ed è l’indimenticato autore di una rubrica satirica, Tutta colpa del liberismo, la summa dei pregiudizi dell’uomo della strada sul pensiero liberale, quindi anche sull’Ibl.

L’elenco dei fellow è lungo: Massimiliano Trovato, Silvio Boccalatte, Francesco Ramella, Filippo Cavazzoni, Piercamillo Falasca. Quest’ultimo ha preso negli ultimi anni la strada dell’impegno politico, sia pure in maniera indipendente: direttore del magazine Strade, è stato il portavoce del Comitato ottimisti e razionali, cioè i pro-trivelle, sottoponendosi a estenuanti maratone tv contro Michele Emiliano e altri No-Triv. Ora, isolato, difende le banche mentre tutti danno loro addosso, anche in arene ostili, come quella di Dalla vostra parte, su Rete 4. Non è l’unico volto che l’Istituto ha dato al dibattito pubblico. Serena Sileoni, vicedirettore, è spesso invitata in tv a difendere le ragioni del mercato, lei giovane mamma contro presunti difensori dei diritti sociali all’ennesimo giro di poltrone. Ironia della fisiognomica. Poi c’è Oscar Giannino, che condivide con Mingardi il look dandy-eccentrico, che segue il suo percorso ma che da sempre è uno dei migliori amici dell’Istituto, dal quale ricevette aperto sostegno quando presentò la lista di “Fare per fermare il declino” alle elezioni del 2013.

L’esperimento fallì, ma la consuetudine con la politica è rimasta. C’era già, e c’è tuttora, nella forma dei consigli non richiesti, delle proposte per le legislature che si aprono, delle idee in tema di fisco e privatizzazioni, nell’Indice delle liberalizzazioni che ogni anno l’Ibl pubblica e presenta con un grande evento e un relatore d’eccezione. Ma c’è anche con la tentazione di scrivere l’agenda di qualcuno che magari quei consigli possa metterli in pratica. È successo con Giannino, che di fatto era un interno. Succede, in parte, con Stefano Parisi, che a lungo (ora non più) è stato nel consiglio dell’Ibl: a Megawatt, l’iniziativa di lancio del suo movimento Energie per l’Italia, lo scorso settembre, c’era tutto l’Istituto. Chi in platea, chi sul palco. C’è l’amicizia di lunga data con Nicola Rossi, ex senatore pd, cui Mingardi, un giorno a pranzo, chiese se non avesse voglia di dimettersi da Palazzo Madama per fare il presidente dell’Ibl. Lui, incredibile ma vero, accettò: «Ma i senatori respinsero tre o quattro volte le sue dimissioni», ricorda ironicamente il direttore dell’Istituto. Il nume tutelare, per anni, è stato anche Antonio Martino, e la consuetudine rimane. Poi c’è il caso Calenda. Di lui Mingardi dice: «Si rivolge al nostro mondo, di sicuro, e di tutti quelli usciti da un mondo non politico è stato finora il più bravo». Però dice anche che è «furbo», perché «al suo liberalismo aggiunge sempre qualche aggettivo, e un po’ non lo dà a vedere», perché forse, in Italia, per fare cose liberali, non bisogna dire di essere tali.

Quel riferimento oscuro

Però, nel legame con la politica, il rapporto è chiaro: «Non abbiamo partiti di riferimento», precisa Mingardi. «La nostra posizione ideologica è netta, quindi poco incline ai compromessi. Certo, ci piacerebbe che le nostre idee venissero prese in considerazione perché farebbero bene all’Italia. Ma il mondo liberale italiano, tutto sommato piccolo, esiste indipendentemente dall’Ibl, anche se noi contribuiamo a tenerlo vivo. Chi ha queste idee presto o tardi si incrocia con noi, come è probabile che per alcuni anni abbia letto il Foglio». Resta da capire perché la scelta di dare a questa battaglia il nome, oscuro per il grande pubblico, di Bruno Leoni. «In Italia da sempre dici liberale e pensi Einaudi, ma quel nome era già utilizzato a vario titolo, e con sensibilità diverse, da altri centri studi e fondazioni. Ci siamo chiesti chi fosse stato il liberale più radicale del Ventesimo secolo e la risposta è arrivata subito: Bruno Leoni». Che in un paese in cui è sempre tutta colpa del liberismo (anche se il liberismo non c’è), è come scegliere di sedersi dalla parte del torto, perché tutti gli altri posti erano occupati.

Da Tempi, 13 Luglio 2017

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