La consulta e il parlamento paralizzato

Sono più di 10 mesi che si deve eleggere un giudice della Corte Costituzionale, ma solo ora si è acceso un dibattito puramente politico

14 Ottobre 2024

La Stampa

Serena Sileoni

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Quando un componente della Corte costituzionale conclude il proprio mandato, deve essere sostituito entro trenta giorni. Non è da adesso, quindi, ma da più di dieci mesi che c’è urgenza di individuare un successore alla giudice Sciarra, che ha terminato il proprio incarico nel novembre scorso. Solo ora, però, si è aperto un acceso dibattito. Non per senso delle istituzioni da parte della pubblica opinione e del parlamento, ma per un fatto politico, e cioè perché è trapelato dalla stessa maggioranza parlamentare che la Presidente Meloni, in vista dell’ottava votazione, ha inviato un ordine di scuderia per eleggere uno stimato professore di diritto pubblico, che al momento è suo consigliere giuridico a Palazzo Chigi. La questione politica, quindi, ha preso il sopravvento su quella istituzionale, sulla quale invece è opportuno soffermarsi per riflettere su cosa si crede che sia e cosa si vuole che sia la Corte.

L’inoperosità del Parlamento nell’eleggere la sua quota di giudici alla Consulta ha una lunga serie di precedenti, fin dalla sua istituzione. Nel 1953, venne approvata la legge costituzionale sul funzionamento della Consulta (quella che impone di sostituire i giudici entro un mese dalla scadenza del loro mandato). Eppure, essa entrò in funzione solo nel 1956. L’attesa di due anni e mezzo fu dovuta al ritardo proprio nella elezione dei giudici di competenza del parlamento, con tanto di richiamo dell’allora presidente della Repubblica Gronchi nel suo messaggio di insediamento, appena eletto, alle Camere.

Nella prima Repubblica, raccontano le cronache, le elezioni si svolgevano con più facilità secondo una logica consensuale e spartitoria, dove dei cinque giudici due venivano indicati dalla DC, uno dal PSI, uno dal PCI e uno dai partiti laici minori. Scomparsi quei partiti, le difficoltà degli accordi sui nomi sono diventate palesi e si sono accumulati ritardi e scrutini: undici mesi (e dodici scrutini) nel 1996, venti mesi (e dodici scrutini) nel 1997, diciassette mesi (e quindici scrutini) nel 2002, diciotto mesi (e ventuno scrutini) nel 2008, quattro mesi (e ventuno scrutini) nel 2014. Nel 2015, infine, il parlamento si è trovato a tardare la nomina contemporanea di tre giudici vacanti, al punto da costringere il Presidente Mattarella a rivolgere un messaggio per l’adempimento di quello che è un vero e proprio dovere costituzionale.

Come allora e anche oggi Mattarella, anche i suoi predecessori si sono trovati a dover richiamare le forze politiche al loro dovere: Cossiga nel 1991, Ciampi nel 2002 e Napolitano nel 2008. Nel 2008, peraltro, la vicenda era simile all’attuale, poiché l’elezione del giudice mancante coincideva con l’insediamento della Commissione di vigilanza della Rai. Eppure proprio in quel caso avvenne un fatto politico che segna una decisa differenza rispetto a oggi. I radicali, guidati da Pannella -che per l’occasione fece uno dei suoi scioperi della sete-si resero promotori di un appello votato dalla maggioranza assoluta dei parlamentari e rivolto ai presidenti di Camera e Senato per convocare a oltranza le sedute, finché non si sarebbero ottenute le rispettive elezioni. Oggi, invece, i parlamentari, anziché pretendere dai partiti di essere messi nella condizione di adempiere al loro dovere istituzionale, hanno soffiato sul fuoco della vicenda politica, sia dalla maggioranza che dall’opposizione. Da un lato, si dice “così fan tutti”, dall’altro si è gridato all’assalto degli organi di garanzia fino a evocare, ancora una volta, l’Aventino. E evidente che la scelta di un quinto dei componenti della Corte sia politica: non sarebbe, altrimenti, una elezione del parlamento. E però sottratta sia alla disponibilità della maggioranza che alle più strette logiche partitiche. Per questo, il voto è segreto e le maggioranze richieste sono tali da essere più ampie anche di quelle di una maggioranza in un sistema maggioritario. L’elezione, inoltre, spetta a un organo terzo rispetto alla Camera e al Senato-il Parlamento in seduta comune-senza candidature e senza discussione, davanti al quale il giudice eletto non risponderà, una volta conferito l’incarico.

Questo vuol dire che l’elezione parlamentare sia a-politica? Chiaramente no, altrimenti – come detto – gli sarebbe sottratta questa funzione. Vuol dire però che deve essere corrispondente a una logica di ampio consenso, quello richiesto appunto dal quorum, e non di appropriazione di personalità di indiscusso valore.

Quanto è diversa dalla logica spartitoria della prima repubblica quella che si è appena manifestata? E si può dire che l’una era corretta, l’altra no? Quanto alla prima domanda, la forma è sostanza. Una eventuale spartizione frutto di convergenza politica sui nomi non è la stessa cosa di una manifesta prova di forza da un lato e resistenza dall’altro. Alla seconda domanda, non c’è una risposta univoca. Si può ragionare sull’opportunità di una appropriazione politica più evidente e trasparente di chi si vuole far eleggere. La Consulta di oggi appare molto diversa da quella di ieri. E vista come protagonista della vita politica con la p maiuscola, essa stessa si è aperta a un maggior confronto con l’opinione pubblica. Che le logiche di elezione per la quota parlamentare diventino più palesi non è necessariamente un male. A dicembre scadranno i mandati di altri tre giudici di nomina parlamentare. Se le vicende attuali sono l’anticipo di un accordo dove domani ciascuno avrà il suo, è anche giusto saperlo. Ma a ciò deve accompagnarsi un ripensamento su cosa si pensa e si vuole che sia la Corte e quindi anche a come funziona. A partire, ad esempio, dall’introduzione delle opinioni dissenzienti e concorrenti, cioè delle opinioni di “minoranza” che espongono i giudici a un confronto con la pubblica opinione.

La composizione e il funzionamento della Corte servono a costruire una specie di triangolo di Penrose: una figura compiuta pur nella apparente impossibilità. Ogni lato che si tocchi rischia di rompere un delicato ma riuscito equilibrio. Sono rischi che la politica può intestarsi, a condizione però di ricomporre la figura guardando tutti i lati, da tutte le prospettive.

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