14 Maggio 2018
Corriere del Ticino
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Da qualche tempo in Occidente la contrapposizione politica fondamentale è tra i movimenti detti populisti e le forze tradizionali. Nell’Unione europea la tensione quasi coincide con quella tra i fautori di istituzioni comunitarie rafforzate e quanti, invece, difendono la sovranità nazionale, ma è chiaro che nella contestazione indirizzata all’establishment confluiscono molti altri temi. Tanto è vero che la manifestazione più rilevante di questa nuova sensibilità si trova proprio oltre Atlantico ed è incarnata da Donald Trump. II rischio è che l’attenzione riservata a questo nuovo bipolarismo impedisca di cogliere altri elementi non meno importanti.
Innanzitutto, c’è ancora poca attenzione sul fatto che non solo i partiti di un tempo tendono a essere accantonati, ma la stessa forma-partito è ormai qualcosa di desueto. Il presidente francese Emmanuel Macron ha vinto alla testa di una formazione, En Marche, che tutto può dirsi meno che un partito. In effetti, per decenni le formazioni tradizionali sono state pensate e modellate a partire dalla SPD tedesca del secondo Ottocento: la prima grande struttura politica organizzata, che era lo strumento dei socialisti tedeschi (allora marxisti) determinati ad affermare le loro tesi, ma rappresentava pure uno spazio in cui si faceva cultura, si coltivavano amicizie, si provava a costruire una società diversa. Quel partito era una comunità e per certi aspetti perfino una chiesa, dato che da quella politica tutti s’attendevano una sorta di palingenesi sociale.
Tutto ciò non esiste più. Ora le strutture politiche sono leggere e in qualche caso solo comitati elettorali all’americana. Il partito classico era la forma organizzativa propria di una società nella quale il confronto era tra ideologie ben definite e, assai spesso, volte a operare una trasformazione totale della realtà. Anche se il partito a struttura dottrinaria aveva in sé questo elemento illiberale, non si può negare che, nel gioco democratico, tutto questo avesse pure una sua funzione. Chi deve votare, in effetti, si trova di fronte a una realtà complessa: liste e candidati di ogni tipo, di cui egli dovrebbe conoscere i comportamenti passati e i programmi futuri. Quando sulla scheda elettorale vi erano partiti con un netto profilo teorico (liberali, comunisti, democristiani, laburisti, ecc.), tale semplificazione permetteva di scegliere con facilità. Se un politico socialista ad esempio doveva esprimersi su un tema specifico, era abbastanza facile prevedere quale sarebbe stata la sua posizione. Essere parte di una formazione caratterizzata da una cultura politica costituiva un vincolo. E in linea di massima chi votava un simbolo raramente poteva essere tradito.
Oggi però la tendenza è quella di vedere imporsi formazioni nei cui nomi e programmi manca ogni aggancio con le tradizioni ideologiche. Realtà come Ciudadanos in Spagna, il Movimento Cinque Stelle in Italia o l’UK Independence Party non hanno un’identità chiara: e questi sono solo alcuni esempi tra i tanti che si potrebbero fare. Quando a ogni formazione in lizza corrispondeva un capitolo della storia delle dottrine politiche ci si trovava ancora entro una società che riconosceva un certo prestigio alla cultura.
Oggi le cose sono cambiate. Non soltanto le formazioni politiche tendono a rifuggire ogni coerenza, ma non vi è neppure un’opinione pubblica capace di esprimere personalità forti e indipendenti, rispettate, capaci di orientare la riflessione pubblica. Cinquant’anni fa un articolo di fondo su «Le Monde» o sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» poteva pesare nel dibattito, ma oggi quel tipo di autorevolezza è venuta meno: i giornali perdono lettori e nell’universo dei social media ognuno scrive e legge quel che vuole.
È entrato in crisi lo schema classico di partiti che governano e poi vengono premiati o penalizzati sulla base di ciò che hanno fatto, dato che ormai prevale una politica spettacolare, basata su impressioni più che su argomenti. Si sta entrando in un universo politico nel quale i partiti si formano e dissolvono, seguendo logiche opportunistiche.
Dove, tutto sommato, una politica meno superficiale continua a resistere? La deriva sopra evidenziata non sembra ancora all’ordine del giorno in quelle realtà in cui il potere è localizzato, com’è appunto in Svizzera. Qui i partiti con una ben precisa identità culturale resistono e anche l’elettore è meglio in grado di valutare e, se necessario, punire chi non ha governato bene. Quando l’orizzonte della politica è primariamente cantonale e comunale la realtà pesa, il marketing ha un rilievo inferiore e permane, alla fine, una certa coerenza tra l’impostazione ideale di fondo e le scelte che ne derivano. Ed è questa, senza dubbio, una buona ragione per difendere il caratteristico policentrismo della società svizzera.
Dal Corriere del Ticino, 12 maggio 2018