Dovremmo preoccuparci se il governo ritenesse che debbano essere i proprietari di seconde case a tutelarci dai criminali. Tuttavia, il recente divieto di self check-in introdotto con circolare dal ministro dell’interno Piantedosi di questo parla: del fatto che le identificazioni da remoto di chi prende casa in affitto per pochi giorni possano costituire un pericolo per la sicurezza. Nella circolare, l’intensificazione delle locazioni brevi viene persino accostata «all’evoluzione della difficile situazione internazionale» per sottolineare «la necessità di attuare stringenti misure finalizzate a prevenire rischi per l’ordine e la sicurezza pubblica in relazione all’eventuale alloggiamento di persone pericolose». In realtà, è possibile che nemmeno il governo prenda sul serio questa motivazione.
Il divieto di identificazione da remoto non è tanto una dichiarazione di fallimento di uno Stato che si affida ai proprietari di appartamenti per garantirci da malintenzionati e terroristi. E’, piuttosto, l’ultimo atto di una stretta al «modello Airbnb» di turismo, culminata lo scorso anno con una serie di imposizioni a carico delle locazioni brevi volute dal ministro Daniela Santanché per mettere fine a quello che definì «un vero e proprio far west». E’ piuttosto curioso dover conciliare questa stretta a un tipo di business nel settore delle attività ricettive con le orgogliose dichiarazioni di successo per i risultati dell’economia del turismo che sono state rese più volte sia dal ministro Santanché che dalla Presidente Meloni. Ma ancor più difficile è dover conciliare una visione da «far west» di scambi economici spontanei e deregolamentati con l’impegno della Meloni a non ostacolare chi desidera intraprendere, assicurato in occasione del suo discorso programmatico e più volte ribadito.
Il problema è che la questione del divieto di self check-in non è un caso isolato, ma l’ultimo di una serie di iniziative contrarie a questo obiettivo originario. Per fare qualche esempio, il governo del lasciar fare è anche quello delle regole sulle farine di insetti e del divieto di carne coltivate tanto voluti dal ministro Lollobrigida, della presenza di emissari del ministero dell’economia nei collegi sindacali delle aziende e della tassa sui bitcoin previste dalla legge di bilancio 2025, della pausa di 20 minuti tra una corsa e l’altra per gli NCC introdotta dal ministro Salvini, della promessa di «contrastare le grandi multinazionali» del ministro Urso.
Quelli appena fatti sono esempi evidenti di quale sia l’atteggiamento di fronte alla capacità innovatrice della concorrenza. L’esecutivo sembra muoversi più verso un conservatorismo nel senso di rifiuto o ostacolo alle forme più nuove di business o agli operatori entranti — dalle criptovalute alle piattaforme digitali, dai cibi non tradizionali alle multinazionali estere — che non verso un conservatorismo liberale incline alla fiducia nei mercati e nei suoi operatori e opposto alle istanze progressiste della sinistra. Allo stesso tempo, questo atteggiamento è lontano da un altro e diverso carattere conservatore interno proprio al governo Meloni e manifestato nelle decisioni di finanza pubblica.
Le leggi di bilancio di questo esecutivo e, in generale, la prudenza del ministro Giorgetti nel trattare la materia fiscale e tributaria esprimono infatti un conservatorismo come senso del limite e della cautela dell’azione di governo, in maniera più coerente con la tradizione politica thatcheriana e reaganiana. Ed è proprio a questo secondo senso, più vicino appunto allo spirito del thatcherismo che al principio di conservazione, che la Meloni dovrebbe richiamare i suoi ministri, se ancora si ricorda la promessa fatta davanti alle Camere di «non disturbare chi vuole fare».