Professor Nicola Rossi, ordinario di Politica economica all’Università di Tor Vergata, il mercato del lavoro italiano ha registrato miglioramenti significativi negli ultimi due anni, con aumento dell’occupazione e contestuale riduzione della disoccupazione. Come valuta nel complesso queste tendenze?
«È vero, il mercato del lavoro ha mostrato progressi importanti, soprattutto nel lavoro dipendente a tempo indeterminato. La crescita occupazionale coinvolge tutte le fasce d’età e si accompagna a un calo dei disoccupati. Tuttavia, restano due punti critici: il rallentamento generale dell’economia, già visibile nei tassi di crescita, e la limitata capacità di espansione nel Centro-Nord. Al Sud, invece, ci sarebbe margine per crescere, ma è anche l’area dove il Paese fa un po’ più fatica in questo momento».
La maggiore flessibilità del lavoro, introdotta anche con modifiche alle norme sui contratti a termine, ha avuto un ruolo positivo? E quindi flessibilità non significa necessariamente un aumento della precarietà visto che i contratti a termine sono diminuiti?
«Questo credo che si possa dire che è sempre successo, solo che c’è chi non vuole vederlo. Chiaramente rendere il lavoro flessibile ha fatto bene al lavoro. Un altro esempio interessante sono gli incentivi alla mobilità (previsti dalla legge di Bilancio, ndr) per chi si trasferisce da Sud a Nord. Se costruissimo le condizioni per accompagnare il trasferimento, potremmo fare il bene del Mezzogiorno e del Centro-Nord. Purtroppo, spesso ci scontriamo contro questa idea abbastanza irragionevole che tutti debbano lavorare dove risiedono. Bisogna costruire un sistema per rendere ancora più flessibile un mercato del lavoro che sta chiaramente dando segnali positivi».
Sul tema della mobilità, pensa che il Piano Casa Italia possa dare una mano?
«C’è un’operazione da fare a monte: sfatare il mito per cui tutti coloro i quali lasciano il Mezzogiorno per andare a lavorare, per esempio, nel Centro-Nord sono una deprivazione del Mezzogiorno. Gli spostamenti di mano d’opera possono essere anche l’unica maniera di far funzionare un mercato del lavoro che finisce per essere a volte più ingessato di quanto non dovrebbe».
Uno dei problemi è il calo della produzione industriale. Nel medio termine – e lo mostra la Cig in aumento – il mercato del lavoro ne risentirà. Non sarebbe opportuno che i rappresentanti dei lavori fossero più collaborativi rispetto ai richiami delle imprese alla politica?
«Le tendenze positive del mercato del lavoro italiano sono con ogni probabilità frutto di misure che non sono costate dal punto di vista del bilancio pubblico. Le risorse pubbliche sono poche e la prudenza con cui viene gestito il bilancio pubblico dovrebbe essere condivisa da tutti. Se avessimo stanziamenti disponibili, dovremmo soprattutto destinarli a gestire la transizione, non a mantenere l’esistente. La vicenda Beko di oggi era la vicenda Whirlpool di ieri e l’altroieri era la vicenda Indesit. Se avessimo utilizzato le risorse che vi abbiamo destinato per riqualificare quei lavoratori, probabilmente oggi essi lavorerebbero altrove in condizioni di maggiore tranquillità».
Nonostante i progressi, il tasso di inattività è in aumento. È un segnale di mismatch tra domanda e offerta di lavoro?
«Esatto. Una delle falle è proprio il sistema della formazione. È un campo in cui si può fare parecchio proprio perché stiamo notando come in alcune aree del Paese si stia arrivando a tassi di occupazione del tutto comparabili con quelli degli altri paesi europei e quindi abbiamo bisogno di mettere in moto tutte le potenzialità che si possono sviluppare».
È una questione del Pnrr.
«Dopo il 2026 si tratterà di capire se il Pnrr avrà lasciato qualcosa in eredità o se si sarà semplicemente trasformato in un debito che durerà a lungo».