Non si espone qui di seguito un grande pensiero riformatore, ma una modesta proposta di conciliazione fiscale propizia a migliorare i rapporti fisco contribuente in una comunità già molto provata.
Sembra una vera è propria gara di solidarietà nazionale quella che si legge sui giornali in queste settimane e che ha coinvolto capitani di industria e top manager di tutti i settori dell’economia nazionale, dalle banche fino alla moda. Molti hanno deciso di rinunciare ai propri compensi o ai propri bonus destinandoli all’emergenza COVID consapevoli che in un contesto straordinariamente drammatico quale è quello che stiamo vivendo le risorse pubbliche non bastano mai e soprattutto non arrivano ad intercettare tutti i bisogni della popolazione.
C’è chi lo ha fatto in silenzio, chi ha preferito pubblicizzarlo, chi invece è stato costretto a darne pubblico riscontro al mercato finanziario. Spontanee o spintanee che siano le intenzioni, vale il dato di fatto. Ma le disgrazie si sa, non vengono mai da sole, quelle fiscali poi sono sempre in agguato e non risparmiano neanche le persone più animate da senso civico e spirito solidaristico.
In questo caso, l’orrore sarebbe che queste rinunce rappresentassero una malefica forma di “incasso giuridico” tale per cui, anche se le somme non sono mai state percepite, devono comunque essere dichiarate e tassate ai fini dell’Irpef, con conseguente responsabilità delle società di effettuare le relative ritenute. Insomma, non solo non si incassano i soldi, ma su quelli non incassati si devono pagare le tasse.
L’ipotesi non è solo italiana se è vero che Emma Agyemang ha lanciato il grido di allarme sul Financial Times per quanto di analogo sta succedendo nella City di Londra. Ma tanto meno si tratta di un’ipotesi peregrina perché se il top manager si obbliga a rinunciare al compenso alla condizione che la società si obblighi ad effettuare una donazione specifica, allora si può condividere che, seppure a fin di bene, il manager abbia mantenuto la disponibilità dell’importo orientandone la destinazione tramite la società che si presta ad effettuare la erogazione.
Il fisco in questo caso perde tre volte: 1) non prende soldi dal manager, 2) non prende soldi dalla società perché la donazione è costo deducibile, 3) non orienta la spesa pubblica.
La giurisprudenza si è interessata dell’argomento in un paio di occasioni dando torto al contribuente. Nel primo caso ha confermato che quando l’amministratore è anche azionista della società e rinuncia alla riscossione del trattamento di fine mandato, si genera per lui comunque un beneficio rappresentato dal maggior valore della partecipazione posseduta, che altrimenti non sarebbe tassato.
Nel secondo, per certi versi pure simpatico, ha confermato che quando un notaio non si prende pagato l’onorario di un atto per motivi di amicizia, cortesia e buona creanza, pretenderebbe di omaggiare clienti e/o amici accollandone l’onere alla collettività dei cittadini e non a sé stesso. Egli avrebbe dovuto regolarmente fatturare i compensi declinandone il pagamento ma accollandosi l’onere fiscale che, altrimenti, rimane a carico dello Stato e quindi di tutti i cittadini contribuenti.
Albert Einstein usava dire che “la cosa più difficile da capire al mondo è la prossima tassa”, e mentre i laboratori di tutto il mondo si prodigano nella ricerca del prossimo vaccino, sarebbe opportuno che l’Agenzia delle entrate si prodigasse nel rendere facile il compito dei benefattori dando almeno l’opportuna indicazione che quando la rinuncia è totalmente incondizionata essa non si trasforma in un boomerang fiscale. Piccolo contributo di grande effetto mediatico per essere vicina ai propri clienti.
26 maggio 2020