Ricordare il passato è necessario per non essere condannati a ripeterlo. Nella cultura politica di oggi, fortunatamente persiste un vero e proprio tabù rispetto al totalitarismo nazista. La barbarie politica di quegli anni è una memoria mantenuta viva con tutti gli strumenti possibile: e meno male che è così.
Al contrario, scomparso è il ricordo dell’altro grande totalitarismo: quello comunista. È una rimozione scientifica più di quanto il socialismo non sia mai stato. Se aprite uno qualsiasi dei libri di storia utilizzati, alle scuole medie e al liceo, dai vostri figli, scoprirete che lo stalinismo è stato al massimo una parentesi, Mao Zedong è l’impavido trionfatore sul fascismo cinese di Chiang Kai-Shek, Ernesto Che Guevara l’emblema della difficile resistenza all’imperialismo americano. Gli anni Settanta sono finiti il primo gennaio 1980: ma proseguono sui libri su cui i nostri figli studiano, e dopotutto proseguono persino in certa parte del dibattito culturale e politico. Pensate soltanto alla neutralità con cui noi tutti pronunciamo ancora la parola “comunista”, quando capita ai più anziani c’è perfino dell’affetto, il rimpianto della giovinezza.
Cento milioni di morti in tutto il mondo non provocano in noi alcuna “vergogna per la specie”, alcun imbarazzo rispetto a settant’anni di orrore. La collettivizzazione dei mezzi di produzione ovunque si è accompagnata a una drammatica compressione delle libertà individuali, alla censura, all’instaurazione di uno Stato di polizia, a fenomeni di carestia.
I nazisti uccidevano per odio, i comunisti per amore: tanto basta, davvero, per chiudere il discorso?
Sappiamo bene che troppo spesso in Italia, negli ultimi vent’anni, l’anti-comunismo è stato una barzelletta venuta male. Un’arma di propaganda politica, caricaturale e spuntata.
Esiste invece un dovere della memoria, un dovere della comprensione di come funzionava quel terribile ingranaggio.
Per questo oggi pubblichiamo (PDF) il testo del “Discorso Bruno Leoni” tenuto da Yang Jisheng a Torino, lo scorso maggio. È stato una testimonianza potente, su una vicenda ancora largamente sconosciuta in Italia: la grande carestia che fra il 1958 e il 1962 sterminò 36 milioni di cinesi, più della metà della popolazione italiana di oggi che trova la morte in quattro anni. L’interesse di Yang per quella vicenda è personale. Nella carestia, morì il suo padre adottivo, e per anni non aveva neppure pensato che ciò fosse avvenuto anche per ragioni politiche. Amartya Sen ha ben spiegato come le carestie dispieghino i loro effetti più devastanti non per ragioni “naturali” ma invece per ragioni “artificiali” e “politiche”. Ma quell’intuizione non poteva nemmeno affacciarsi, sotto il dominio del Partito.
Yang Jisheng è l’autore di un grande libro, Tombstone (lapide), nel quale per la prima volta uno studioso cinese prova a quantificare le vittime di quel massacro. Il libro è stato pubblicato ad Hong Kong, poi tradotto in inglese, ha avuto successo nel mondo anglosassone. Accettando il nostro invito, ha visitato per la prima volta, a settant’anni, un Paese europeo. Usciva per la seconda volta dal Paese (in precedenza, era andato negli Stati Uniti a ritirare il Premio “Hayek” del Manhattan Institute). Le sue pagine sono preziose per capire, per ricordare. Questo “Occasional Paper” ne rappresenta un sunto efficace. È un piccolo contributo, per ricordare il passato ed evitare la tentazione di ripeterlo.