Il libro di Nicola Giocoli ripercorre storie e nascita di quella che è stata una delle scuole economiche più importanti del Novecento
Seguendo i dibattiti televisivi che hanno accompagnato la nomina di Kamala Harris a candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti, è incredibile osservare come da destra e da sinistra ci sia sempre un elefante nella cristalleria del politicamente corretto: il vero nemico è sempre comunque il neoliberismo.
Leggendo il bellissimo libro di Nicola Giocoli, La scuola di Chicago (IBL Libri), sin dalle prime pagine si capisce bene da dove nasca questo pregiudizio. È la cosiddetta ipotesi malevola e cioè che il neoliberismo sia fondamentalmente una variante dell’autoritarismo reazionario e fascista.
Il libro ripercorre storie e nascita di quella che è stata una delle scuole economiche più importanti del Novecento e i cui insegnamenti, anche se negletti, perdurano anche oggi. I liberali sono fenomenali e riescono a dividersi anche sulle teorie. Senza entrare nel dettaglio, a quella di Chicago non dico che si possa contrapporre ma certamente si può affiancare criticamente la Scuola austriaca. Ma sono questioni per addetti ai lavori.
La mitica scuola di Milton Friedman (anche se in realtà nel libro si tratta soltanto della seconda generazione dei professori di Hyde Park) parte da una regola d’oro che conviene sempre tenere a mente per comprendere il succo dell’economia liberale. Per prima cosa bisogna considerare che quella degli americani è un’economia empirica volta a predire il comportamento degli uomini e che deve sempre essere supportata dalla verifica dei fatti: sembra una banalità ma spesso le ideologie economiche non seguono questa traccia.
Per Friedman «il metro di giudizio di una teoria non è la precisione della descrizione, ma esclusivamente il suo successo predittivo». Gli elementi chiave sono: «la centralità del concetto di libertà economica, il ruolo della price theory come chiave interpretativa per capire il funzionamento dei mercati, l’enfasi sulla teoria monetaria e l’ostilità verso il keynesismo e, in generale, le interferenze statali».
La price teory «non è altro che l’insieme degli strumenti analitici necessari per spiegare, misurare e predire. Al cuore della teoria – tanto da derivare il proprio stesso nome da una sua tipica manifestazione, il prezzo – vi è l’analisi del funzionamento del mercato, inteso come luogo di interazione tra individui “egoisti” (più correttamente: auto-interessati, come traduzione eticamente neutra dell’espressione self- interested)». Tutto il resto è ideologia, politica, come verrebbe da dire vedendo le recenti vicende americane. E non solo, per la verità.