In Italia le grandi partite economico-finanziarie diventano spesso vicende di potere, calibrate pensando a complessi equilibri dentro e fuori la Penisola. Così, il tentativo di Intesa Sanpaolo di assicurarsi il controllo delle Generali, roba da far tremare i polsi agli azionisti, sembra proiettarsi sullo sfondo di una più ampia guerra di posizione fra Axa e Allianz, giganti dell’assicurazione che capitalizzano una il doppio l’altra più del triplo della compagnia triestina.
Il passaporto non dovrebbe influenzare le scelte di mercato, dove contano progetti e piani industriali, e alla fin fine chi, più credendo nei propri, più è disposto a pagare. Ma che il destino finanziario della penisola si compia al di fuori da esso non è una novità.
Era già così quando l’Italia era politicamente frammentata, instabile, eppure una terra di coraggio imprenditoriale e innovazione finanziaria senza pari. Guicciardini riconobbe che «non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità» quanto alla fine del 1400, alla vigilia delle guerre d’Italia. Il reddito pro capite era fra i più alti in Europa, e lo sarebbe rimasto fino agli inizi del 1600. Mentre si agglutinano i primi Stati nazionali territoriali (la Francia di Luigi XI, la Spagna dei re cattolici, l’Inghilterra di Enrico VII), nella penisola c’è una sorta di seconda età dell’oro della città-stato. Secondo Jean Baechler (“Le origini del capitalismo”), «il fatto che la civiltà europea sia passata attraverso la fase della città stato è la spiegazione principale del divario tra la storia d’Europa e quella dell’Asia». Forse è anche in ragione di questa particolare cornice istituzionale che l’Italia dell’epoca ospita mercanti e prestatori di denaro che controllano fiere e traffici in tutto il continente. Quanto pervasiva fosse la presenza degli italiani ce lo ricorda il ritratto che il pittore fiammingo Jan van Eyck fece dei coniugi lucchesi Arnolfini. Le vicende dei banchi italiani non potevano che intrecciarsi con quelle della statualità nascente: ansiosi i re di procacciarsi denaro, e i banchieri di prestarlo loro. I legami personali, le relazioni fra uomini della corte e dirigenti delle grandi banche influenzavano le allocazioni di credito, segnavano due percorsi diversi ma paralleli: la nascita della finanza moderna, l’emergere della moderna sovranità.
La filiale di Londra del Banco dei Medici esagerò coi prestiti a Edoardo IV, per ottenere in cambio il permesso di esportare lana con esenzione da dazi doganali. Le condizioni della filiale londinese del Banco andarono peggiorando al punto da causare una «disastrosa liquidazione», come la definì, nel suo magistrale “Il banco Medici dalle origini al declino”, Raymond De Roover. Tommaso Portinari, il rappresentante mediceo nelle Fiandre, legò a doppio filo il proprio destino a quello del duca di Borgogna, il re senza corona dei Paesi Bassi. A capo della famiglia Medici era Lorenzo, noto a ogni liceale per il Trionfo di Bacco e Arianna, ma che non aveva né la tempra né il genio finanziario del nonno Cosimo. Per quanto la banca raccomandasse di non aver rapporti con le corti ed evitare investimenti oltremodo incerti, Portinari strappò un via libera a prestar denaro a Carlo il Temerario, eccedendo tuttavia i limiti che gli erano stati indicati. Egli «aveva trasgredito gli ordini e sacrificato gli interessi del banco Medici per soddisfare la propria vanità». La situazione della filiale di Bruges degenerò al punto che Lorenzo il Magnificò preferì ritirarsi dall’azienda mentre Portinari, per aggrapparsi alla speranza di rientrare dei prestiti accordati sino ad allora, finì per concederne altri, all’arciduca d’Austria e reggente dei Paesi Bassi Massimiliano, «il peggior debitore tra tutti i principi d’Europa».
A Lione, città alla quale Luigi XI aveva riconosciuto notevoli privilegi per insidiare il primato delle fiere di Ginevra (i mercanti erano totalmente liberi di rimettere fondi all’estero e tutte le monete, nazionali e estere, potevano circolare al loro valore di mercato, così che erano i mercanti stessi a fissarne il corso, liberi da asfissianti ordinanze), i fiorentini avevano sia attività commerciali che creditizie. Questa forte presenza fece sì che essi, come i banchieri tedeschi, cominciassero a finanziare il debito francese. Ma le guerre per il primato europeo fra Asburgo e Valois erano costosissime, e nel 1555 Enrico II fu costretto a trovare un accordo con i creditori per consolidare i suoi debiti a breve termine, allungandone le scadenze e contrattando con un vero e proprio consorzio di banche, nelle quali, per numerosità, dopo le tedesche venivano fiorentine e lucchesi. L’idea era quella di sostenere il debito con più solide garanzie, ma all’ingordigia della monarchia non si riuscì a far fronte.
Ogni tanto i sovrani erano un buon affare. Dopo la prima bancarotta di Filippo II, i genovesi s’insediarono in Castiglia dedicandosi sempre di più agli «asientos», contratti coi quali i prestatori si impegnavano a rendere regolari i pagamenti esterni del governo spagnolo, di solito con promessa di rimborso in argento proveniente dalla Americhe. Attività che irritò i mercanti locali e che provocò qualche rovescio: per esempio con la bancarotta del 1575, «una manovra spagnola ordinata contro i genovesi» come scrisse Fernand Braudel, che a Genova coincise con la rivolta dei «nuovi ricchi» contro i «vecchi ricchi». Per quanto fossero impensieriti dai tumulti politici, i genovesi riuscirono a rinsaldare la propria presa sulle finanze del re cattolico per almeno mezzo secolo: i successivi default (quasi uno ogni quindici anni) non colsero più alla sprovvista la città di San Giorgio. Le scelte dei banchieri in Italia, quelle dei sovrani in Europa, sono state a lungo legate. Ma se nel Rinascimento eravamo l’indispensabile culla della modernità capitalistica, oggi tutta l’Europa, inclusa l’Eba (l’Autorità bancaria europea) con la sua proposta di una bad bank continentale, cerca di evitare il crollo finanziario dell’Italia e delle sue banche. O almeno di salvare i pezzi pregiati dal naufragio.
Da La Stampa, 8 febbraio 2017