La Lega e la questione settentrionale

I 40 anni del Carroccio: il cavallo di battaglia delle origini


15 Aprile 2024

Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Politiche pubbliche

Si nasce incendiari e si muore pompieri. Quando la Lega compie quarant’anni, è normale paragonare il partito di ieri e quello di oggi. C’è il rischio che il caleidoscopio del ricordo si fermi solo sulle immagini: Bossi in canotta, il prato di Pontida, l’ampolla del Po.

Se la Lega è sopravvissuta alle corazzate politiche contro cui era nata non è per uno scherzo del destino. Nella prima repubblica che tanti rimpiangono, l’etichetta escludeva che si potesse parlare di tasse. Il carico fiscale era più basso dell’attuale e calmierato da una certa tolleranza per comportamenti in chiaroscuro. Ma l’idea che, per i servizi loro resi dallo Stato, gli italiani pagassero troppe imposte era estranea ai partiti di governo come a quello d’opposizione, almeno nominalmente fautore della nazionalizzazione dei mezzi di produzione.

La Lega, già da prima che le inchieste di Tangentopoli le mettano vento nelle vele, prende per le corna il toro fiscale. E lo fa da una posizione particolare: quella di un Nord di imprese piccole che diventano medie e medie che diventano grandi, in parte fornitori delle grandi aziende pubbliche ma in larga parte totalmente indipendenti da esse, che sa di essere la locomotiva del Paese. È al Nord che si produce e, di conseguenza, che si pagano le imposte. Imposte che tutt’oggi finiscono in buona parte non in servizi offerti sul territorio ma in trasferimenti al resto d’Italia.

Entrato come un elefante nella cristalleria della politica (e, col senno di poi, con una capacità di innovare la comunicazione seconda solo a quella di Berlusconi), Umberto Bossi pone questo problema. È la «questione settentrionale». Che, in quarant’anni, si sarebbe potuto se non risolvere almeno affrontare.

Che cosa è stato fatto? Poco. Su impulso di Gianfranco Miglio, la Lega proponeva una «grande riforma», passata in cavalleria come tutte le grandi riforme, che avrebbe ribaltato la piramide fiscale: le regioni (aggregate nei tre blocchi Nord, Centro e Sud) avrebbero raccolto le tasse e ne avrebbero poi trasferito parte a Roma. Ciò avrebbe innescato un meccanismo negoziale fra centro e periferia che avrebbe potuto migliorare la qualità della spesa o ridurre il prelievo, mentre i diversi territori, «padroni a casa propria», avrebbero potuto agire su offerta di servizi e pressione fiscale, per risultare più attrattivi. Così funziona il federalismo, dove c’è.

Come «sindacato del Nord», la Lega ha avuto successo, nel senso che da lustri è al governo delle regioni più ricche. Senza però lasciare il segno nelle istituzioni.

In Italia passa ancora come un affronto alla sovranità nazionale la riforma del titolo V, cui viene attribuita la colpa di avere consegnato la sanità nelle mani delle Regioni. Essa conta per oltre l’80% del loro bilancio. Ma già nel testo della Costituzione del ’48 l’organizzazione della «assistenza sanitaria ed ospedaliera» è in capo a norme regionali.

L’autonomia proposta dal ministro Calderoli, e avversata con zelo degno di miglior causa dai governatori meridionali, non cambia nulla, dal punto di vista fiscale. Anzi, con la definizione di «livelli essenziali di protezione» tarati sulle regioni «virtuose» come Lombardia e Veneto, potrebbe accrescere i trasferimenti al Sud.

Alla «questione settentrionale» ha nuociuto una narrazione paradossale, per la quale il Nord, nel quale si paga il grosso delle imposte, proprio perché produttivo e imprenditoriale è stato fatto passare per la culla dell’evasione. Ma ha anche nuociuto l’incapacità di discutere seriamente della «questione meridionale».

Al di là delle iniziative speciali, gli stessi trasferimenti ordinari concentrano risorse nel pubblico impiego, rendendo le carriere all’ombra dello Stato molto più attrattive di tutte le altre. La lunga storia degli «aiuti al Meridione» non ha prodotto sviluppo ma ha depresso, in quelle regioni, il settore privato. Il Pil pro capite nel Sud resta la metà che al Nord. Prendere sul serio la «questione settentrionale» poteva servire a fare chiarezza.

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