14 Febbraio 2019
Il Giornale
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Quando circa un quindicennio fa Alan S. Kahan cominciò a lavorare al suo volume sul conflitto tra intellettuali e capitalismo (La guerra degli intellettuali al capitalismo, ora edito da IBL Libri), quel progetto di ricerca poteva sembrare orientato unicamente al passato.
All’inizio del terzo millennio larga parte d’Europa faceva ancora i conti con le macerie del socialismo ed era ben viva la memoria delle tragedie causate da nazionalismo, fascismo e nazismo. Eppure Kahan avviò quel suo studio con la consapevolezza che nel 1910 la situazione era sotto taluni aspetti simile, salvo poi – e assai rapidamente – evolvere in un’altra direzione.
Specialista di Alexis de Tocqueville e John Stuart Mill, Kahan ha qui affrontato un tema cruciale, sforzandosi di capire le ragioni del contrasto che da circa centocinquant’anni oppone gli uomini di cultura occidentali e l’ordine economico basato su proprietà e libero scambio. E l’ha fatto evidenziando come, dopo una luna di miele settecentesca (durante la quale la filosofia morale generò la comprensione degli ordini di mercato), l’età moderna sia stata segnata da una sorta di divorzio tra mente e denaro.
Quando Louis Aragon definì «puttane dell’utile» tanto i banchieri quanto gli operai, dicendosi «puro» in quanto restio a ogni lavoro e profitto, il suo estremismo fu comunque la spia di un atteggiamento diffuso. La mentalità europea ha infatti rigettato a più riprese la logica della vita ordinaria e dell’impresa, manifestando pure una netta repulsa per la libertà dei singoli.
Kahan mostra come si sia di fronte a un fiume carsico. Nel corso del tempo, infatti, la guerra al capitalismo è stata in vario modo interpretata dal conservatorismo, dal socialismo, dall’anarchismo, dalla tecnocrazia, dall’estetismo. Pur diversi tra loro per valori e attitudini, gli intellettuali hanno comunque combattuto la loro crociata con successo, riuscendo a imporre il dogma secondo cui la società commerciale è volgare ed ingiusta.
Di destra o di sinistra, nazionalista o no global, l’anticapitalista militante non vuole che il prezzo dei beni sia deciso dall’incrocio delle decisioni dei consumatori, né accetta che un negoziante alzi la sua saracinesca quando vuole. Ormai neppure è più accettata l’idea che, andando in pensione, un barista fiorentino ceda la propria attività a chi vuole vendere kebab. Ciò che tale mentalità contesta più di ogni altra cosa è la scelta individuale e l’idea che la società sia il comporsi di innumerevoli atti singoli.
Conosciamo naturalmente molte varianti di intellettuale. Anche sul piano socio-professionale, vi è differenza tra il bohémien e l’accademico, tra l’artista e il professore. Eppure tutti assieme fanno parte di quello che Kahan definisce uno «pseudo-clero» e che può anche essere ricondotto alla distinzione, formulata dal filosofo William James, tra gli uomini d’affari (le «persone che hanno») e gli intellettuali (le «persone che sono»). Una contrapposizione manichea à la Erich Fromm che dà ragione in larga misura del trionfo delle ideologie nemiche dell’economia libera.
Nelle quasi 400 pagine dell’opera di Kahan emerge come la lotta tra mente e denaro sia un fattore cruciale della modernità, a dispetto del fatto che il capitalismo e gli intellettuali si attraggano a vicenda. L’uomo impegnato a osservare in termini critici il mondo che lo circonda, infatti, è in larga misura un prodotto del capitalismo, che ne ha bisogno. La società commerciale cresce e matura anche in ragione dell’influsso di queste voci contestatrici, innovative, non di rado più distruttive che costruttive, ma nonostante tutto anch’esse parte di un processo di cambiamento. Certo, ammonisce l’autore, questa critica incessante dovrebbe essere svolta a un prezzo inferiore: dato che «le decine di milioni di morti nelle rivoluzioni e controrivoluzioni» sono un costo insopportabile e da evitare.
Nella prefazione alla versione italiana, tra l’altro, Kahan aggiorna la sua analisi con una riflessione sui cambiamenti degli ultimi anni (l’edizione originale del libro è del 2010). Qui si considera l’avvento di una nuova destra sovranista e illiberale che non sempre rigetta la proprietà e il profitto, ma che in nome di un «altro capitalismo» demonizza le multinazionali, la finanza, la globalizzazione. In Steve Bannon e nei suoi emuli, Davos rappresenta il cuore del complotto ordito da quell’élite che – nelle paranoie di molte teorie cospirative – avrebbe predisposto l’immigrazione di massa, indebolito i ceti medi con la competizione, precarizzato ogni condizione sociale.
Probabilmente una pace duratura tra mente e denaro, tra intellettualità frustrata e dinamismo imprenditoriale, è impossibile. Secondo Kahan è però necessario che si abbia una qualche forma di «distensione», prima che la guerra fredda diventi una guerra reale e prima che il vuoto morale generato da questo conflitto tra l’Essere e l’Avere sia riempito da fondamentalismi di ogni tipo: si tratti dell’islamismo come del nazionalismo.
da Il Giornale, 14 febbraio 2019