La malattia dei mercati

La prevalenza dell'azzardo. Cosa c'è dietro la malattia dei mercati

20 Marzo 2023

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

C’era una volta la «Greenspan put», l’opzione invincibile che garantiva tutti, investitori e speculatori. Oggi e non per la prima volta l’antica lezione del mercato con un’unica regola viene messa in discussione. Considerazioni in occasione della nuova grande turbolenza

Il 31 gennaio 2006, pochi mesi prima di morire, Milton Friedman pubblicò sul Wall Street Journal un articolo su Alan Greenspan. Greenspan lasciava la guida della Federal Reserve, che aveva assunto nel 1987. Per quanto il suo predecessore, Paul Volcker, fosse stato l’uomo che aveva messo le briglie all’inflazione e diversi banchieri centrali (come Karl Otto Pöhl e Hans Tietmeyer in Germania, o Guido Carli in Italia) fossero stati importanti figure pubbliche, nessuno aveva mai goduto la considerazione di cui godeva Greenspan. Chiamato il «Maestro della moneta», gli veniva attribuito il merito di un’epoca di grande stabilità dei prezzi, nella quale le crisi finanziarie (che pure c’erano state: Saving and Loans prima, la crisi asiatica e Ltcm poi) avevano avuto effetti contenuti. Friedman per tutta la vita aveva predicato l’importanza di regole stringenti per la creazione di moneta, Greenspan preferiva, facendo il proprio interesse, la discrezionalità del banchiere centrale. «Devo confessare che la sua performance alla Fed mi ha dimostrato che ha ragione Greenspan, perlomeno nel suo caso». Friedman era già nel paradiso degli economisti quando scoppiò la crisi del 2007-2008. La reputazione di Greenspan andò rapidamente in frantumi.

Dagli altari alle polveri il passo è breve. Da una parte, Greenspan aveva allegramente lasciato correre la moneta, perseguendo politiche molto espansive per sostenere l’economia americana, e mondiale, dopo il crollo delle torri gemelle. Quelle politiche falsarono i segnali di mercato e spinsero a fare investimenti improvvidi: come le terze/quarte case comprate a debito dalle spogliarelliste della Florida, di cui racconta Michael Lewis in «The Big Short», strepitoso libro su quegli operatori di mercato che si avvidero, invece, che qualcosa non quadrava.

Regole…
Inoltre, Greenspan aveva alimentato l’azzardo morale in qualche misura connaturato al settore bancario: si parlava di «Greenspan put», in pratica la garanzia – offerta da chi i dollari li stampa e quindi ne dispone senza limiti – che i prezzi di borsa non sarebbero mai scesi. L’opinione pubblica avrebbe dovuto apprendere una lezione dalla vicenda di Greenspan: i banchieri centrali, persino quelli di superiore caratura intellettuale, sono esseri umani, gli esseri umani sbagliano, è buona norma non confonderli con dei semidei.

Invece abbiamo fatto l’esatto contrario. Dal 2011 ad oggi viviamo in un mondo nel quale le regole dell’equivalente finanziario della fisica newtoniana sono state sovvertite. I tassi sono stati a lungo pari a zero se non negativi. Gli istituti di emissione hanno influito pesantemente sull’allocazione delle risorse, diventando gli obbligazionisti di ultima istanza in tutto il mondo occidentale. Il loro bilancio si è espanso a dismisura. Negli ultimi anni è diventato un luogo comune sostenere che le banche centrali dovrebbero fare qualcosa, ovvero condizionare le decisioni di investimento dei privati, in tema di parità di genere e cambiamento climatico.

Ci hanno promesso un mondo nuovo, nel quale le crisi bancarie erano acqua passata in ragione delle nuove regole scritte alla luce dell’esperienza del 2007-2008. Più che Cristoforo Colombo, però, è un mondo nuovo nel senso di Aldous Huxley. Con il crac di Silicon Valley Bank, abbiamo a che fare con la più tradizionale delle crisi bancarie: i depositanti hanno portato via i loro quattrini, intimoriti da quella che hanno correttamente diagnosticato come una situazione insostenibile. Per dire. La banca aveva 200 miliardi di dollari di attività: 86 erano in obbligazioni ipotecarie residenziali con garanzia superiore ai 10 anni, detenuti sino alla scadenza. Solo che il valore di mercato era 71 miliardi. Negli ultimi anni, la banca si era riempita di buoni del Tesoro, considerati a rischio zero dai regolatori. Con l’aumento dei tassi, il loro valore marked to the market è sceso e il cuscinetto di capitale della banca si è ridotto vistosamente. L’aumento dei tassi, in questo caso, è il dito e non la luna. Le politiche monetarie lasche hanno portato a una cattiva allocazione delle risorse. Ma in molti erano convinti fossero la «nuova normalità» e dunque hanno pensato si potesse continuare su quella strada.

…E realtà
La correzione è arrivata tardi ed è stata messa in atto nel modo più graduale possibile. Gli operatori avevano scarsi incentivi a raddrizzare la barra. La storia della Fed ha insegnato loro che, se si è grandi a sufficienza, è lecito aspettarsi un intervento di salvataggio. E almeno in parte è ciò che è avvenuto, col governo che si è affrettato a garantire tutti i depositanti di SVB, anche al di là della soglia dell’assicurazione sui depositi. Adesso arriverà, immancabile, l’invocazione di nuove regole. È importante comprendere che esse non possono sostituire la disciplina di mercato. Che sarebbe assai più efficace ma è chiaramente una chimera: gli Stati salvano persino, come in questo caso, quell’1% più ricco dei contribuenti che promettono di fustigare un giorno sì e l’altro pure.

Ricapitoliamo. Le politiche monetarie lasche inquinano i segnali di mercato, incentivando comportamenti spericolati. Il fallimento è un’ipotesi di scuola: se sei grande abbastanza, ti salvano. Ai banchieri centrali vengono riconosciuti poteri straordinari e ci si aspetta che li usino, discrezionalmente, in nome di qualche interesse superiore. Va da sé che le regole, qualsiasi esse siano, sono solo grida manzoniane.

da L’Economia del Corriere della Sera, 20 marzo 2023

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