Nel ventesimo secolo il destino di tante vittime del comunismo ha assunto in molti casi un aspetto paradossale. Mentre quegli oppositori scalavano muri e cercavano in altri innumerevoli modi di accedere alla libertà dell’Occidente, i nostri intellettuali proclamavano con entusiasmo che proprio i regimi comunisti rappresentavano il futuro. Ora sta andando in scena una situazione simile. Mentre le vittime dell’arretratezza e del dispotismo del Terzo Mondo si riversano in Occidente, gli stessi intellettuali – chiusi nella loro torre d’avorio – affermano che da noi la vita è un incubo in termini di ineguaglianza e oppressione.
Ne La mente servile, uscito in lingua inglese nel 2010, Kenneth Minogue esamina in che modo la nostra intellighenzia continua a perseguire l’ideale della perfezione sociale ed evidenzia come questo sogno stia distruggendo proprio i fattori che hanno fatto sì che l’Occidente potesse esercitare un fascino irresistibile per i popoli degli altri paesi.
Il libro cerca di capire come la moralità occidentale si sia trasformata in una semplice posa e in un’esaltazione acritica di talune cause: dalla soluzione del problema della povertà all’instaurazione della pace, alla lotta contro il riscaldamento globale. Anziché agire moralmente, sostiene Minogue, preferiamo chiedere al potere pubblico di addossarsi l’onere di risolvere i nostri problemi sociali. L’aspetto di cui non ci rendiamo conto è che, più permetteremo allo Stato di determinare le nostre convinzioni più intime e il nostro ordine morale, più avremo bisogno che ci venga detto come comportarci e cosa pensare.
Come scrive Franco Debenedetti nella prefazione, «il passaggio dalla libertà individuale alla sudditanza collettiva è la riduzione dello spazio della vita morale dell’individuo. Delegando allo Stato il compito della propria protezione, l’individuo accetta che l’infinita varietà degli orizzonti personali e il valore delle energie investite per realizzarli sia sostituito dalla presunta sicurezza di un futuro predeterminato dallo Stato».