Legge di bilancio e politiche per la natalità sono un binomio costante negli ultimi anni. Nella prospettiva di governo, di fronte a un problema reale e concreto e l’inverno demografico è un maledetto e gigantesco problema reale e concreto – fare qualcosa è considerato sempre meglio di fare nulla. Si spiegano così le notizie secondo cui il ministro Giancarlo Giorgetti sarebbe alla ricerca di cinque-sei miliardi per aiutare le famiglie con più figli. Non che siamo all’anno zero nelle politiche per la natalità, tutt’altro. Ma a ogni manovra i governi hanno bisogno di dimostrarsi fattivi, anche solo spostando agevolazioni fiscali e contributive da qui a lì. Si parla di aumentare a tre la soglia dei figli che consente di accedere alla decontribuzione per le madri lavoratrici e al tempo stesso di estendere la misura alle autonome; odi aumentare le spese che le famiglie con almeno due figli possono portare in detrazione, riducendole per quelle senza figli.
Come ha scritto ieri su queste pagine Chiara Saraceno, nemmeno le politiche più generose e sistematiche per la natalità hanno sicuri effetti sul desiderio e la possibilità di avere figli.
Vale la pena soffermarsi su questo aspetto e, di fronte alle ambizioni di governo, alle aspettative che generano e alla realtà degli strumenti fiscali a disposizione, mettere la questione demografica in una più ampia prospettiva storica e geografica.
Già a metà del 1800, Harriet Taylor Mill e suo marito, il ben più noto John Stuart Mill, principali esponenti del primo femminismo inglese e sostenitori del suffragio femminile, avevano messo in collegamento l’emancipazione delle donne alla loro perdita di volontà nel dedicare la vita «a una funzione animale e alle sue conseguenze». L’accesso all’istruzione e al lavoro le avrebbero liberate della «opinione generale degli uomini» secondo cui la loro «naturale vocazione sono il matrimonio e la maternità». A distanza di 200 anni, possiamo dire che avevano ragione. Il calo di natalità è il prezzo della libertà e del benessere.
La correlazione inversa tra indice di fertilità e Pil pro capite è stata già ampiamente rilevata, così come quella tra l’indice di fertilità e l’indice di sviluppo umano. Il tasso di fecondità in 60 anni si è quasi dimezzato, ma mentre esso è di 1,5 per i Paesi più avanzati, sale a 2,4 per quelli in via di sviluppo e a 4,1 per i più poveri. La maggior parte del mondo, Cina e India comprese, sono sotto la soglia di sostituzione. Sopra, c’è l’intera Africa, eccetto la Tunisia, insieme al Medio Oriente e a pochi Stati dell’America Latina e dell’Asia. Spesso, dove è alta la fertilità lo è anche la mortalità infantile.
Il rapporto tra benessere sociale, emancipazione femminile e denatalità può spiegare perché le economie emergenti stanno iniziando a mostrare le stesse dinamiche demografiche e perché il contribuito alla natalità da parte degli stranieri immigrati nel tempo tende a ridursi. La questione demografica, insomma, è una spirale che non sarà fermata dalle mani dei governanti, con i loro attrezzi fiscali e regolatori. Non è un’affermazione apocalittica. Ragionando per estremi, la nostra specie è un accidente nella storia del mondo e non saranno quei suoi stessi accidenti che chiamiamo Stati a determinarne la sopravvivenza. Ma è chiaro che a noi interessa sopravvivere come specie e non peggiorare le nostre condizioni di vita: non solo per istinto, ma anche per assicurare a noi e ai nostri figli la qualità di vita raggiunta, che può essere garantita solo dal mantenimento delle risorse umane, intellettuali e fisiche.
Se questo è il punto, l’Italia ha un problema ulteriore a quello della denatalità, che è l’invecchiamento della popolazione. Detto in maniera cruda, non moriamo e invecchiamo per molti più anni di prima. E un’ottima notizia, ma se collegata al fatto che abbiamo pochi figli e che confidiamo di invecchiare bene, qualche problema lo crea. Le stime vanno prese come tali, ma secondo quelle dell’Istat nei prossimi 25 anni il rapporto tra individui in età lavorativa e non passerà da circa 3 su 2, a 1 su 1. Incoraggiare attraverso politiche fiscali e di welfare il desiderio di genitorialità può essere una scelta lodevole in sé. Ma la deformazione della piramide demografica è talmente imminente che le politiche per la natalità, ammesso che funzionino e non producano effetti distorsivi, rischiano di arrivare tardi, rispetto alla questione di chi terrà in piedi la baracca.
C’è solo una categoria di politiche che, invece, può avere e già ha un effetto immediato sulla necessità di aumentare la base attiva della nostra popolazione: quelle migratorie.
Purtroppo, però, tali politiche sono tra le più refrattarie alla razionalità. Due giorni fa, ad esempio, mentre la Germania innescava una reazione a catena sui controlli alle frontiere, la maggioranza della Camera dei deputati ha votato contrariamente allo ius scholae. Se ne riparlerà ancora, dopo la fiammata estiva accesa dal ministro Tajani? Forse. Quel che è certo, è che di immigrazione si parla sempre con la pancia e poco con la testa. Anche per questo, quel che assorbe l’Italia dai fenomeni migratori è del tutto scomposto: tendenzialmente, i governi si preoccupano dell’ingresso dei migranti, ma non di cosa fanno una volta entrati; sanano i lavoratori in nero, ma non riescono ad attrarre migrazioni di qualità; come cittadini, siamo disposti ad accoglierli nelle nostre case e fabbriche per fare lavori che non siamo più disposti a fare, ma preferiamo in generale e al tempo stesso che stiano «a casa loro». I risultati elettorali di questi anni in Europa e negli Stati Uniti ci dicono che sulle migrazioni si gioca la carta di governo. Inutile fare l’elenco degli esempi. Forse questo ambito è l’ultimo che distingue ancora nettamente le offerte politiche. Perché riguarda molto più dell’economia. Riguarda l’idea che abbiamo di noi e della nostra presunta identità e sicurezza. La paura dei cambiamenti. L’accettazione delle trasformazioni. Ma riguarda anche la possibilità di mantenerci come società attiva e dinamica, pur con l’inverno demografico alle porte.