La nazione è un individuo che vuole autogovernarsi

Kedourie espone un punto di vista conservatore e liberale su uno dei temi più difficili e dibattuti

26 Gennaio 2022

Il Giornale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Le nazioni si fondano su memorie o motivi etnici premoderni o addirittura antichi. Tuttavia il concetto di nazione è moderno ed è frutto del Romanticismo. Sul terreno politico rappresenta la risposta dell’età romantica alle tendenze razionalizzanti, universalizzatrici e cosmopolitiche dell’Illuminismo che si proponevano di individuare leggi valide per tutti i popoli, per tutti i tempi, per tutte le situazioni.

Almeno fino al XV secolo le nazioni culturali e linguistiche non avevano valenze politiche. L’accostamento graduale fra valori politici e valori linguistico-culturali cominciò a manifestarsi con la formazione degli Stati nazionali ad opera delle grandi monarchie: nazione e Stato si svilupparono attorno al re. La persona del sovrano e la monarchia incarnavano la nazione simboleggiando l’unità morale del paese, mentre si edificava lo Stato nazionale. Dopo la Rivoluzione francese, sull’onda del Romanticismo, il concetto di nazione sconfinò sempre più dal terreno della cultura a quello della vita pubblica. E la «passione nazionale», prima sconosciuta, divenne il motore del secolo. Alla politica settecentesca, tutta equilibrio e razionalità ovvero ponderazione e calcolo, subentrò questa «passione» capace, divampando, di associare il concetto di nazione a quello di patria e persino di sacralizzarlo.

Nell’ultimo scorcio del diciannovesimo secolo, all’indomani della conclusione del conflitto franco-prussiano del 1870, mentre maturava il passaggio dall’epoca delle nazionalità a quella dei nazionalismi, si sviluppò un dibattito sull’idea di nazione. Lo storico tedesco Teodoro Mommsen rivendicò il diritto della Germania ad annettere l’Alsazia perché abitata da popolazione di razza e lingua tedesca, mentre un altro storico francese, Numa-Denis Fustel de Coulanges, contestò tale tesi sostenendo che per individuare e definire l’essenza di una nazione non contavano né la razza né la lingua ma piuttosto la comunanza di ideali e interessi, affetti e ricordi. Anni dopo, poi, nel 1882, ancora uno storico, Ernst Renan, sostenne che la nazione doveva essere vista come «un plebiscito di ogni giorno». Tale dibattito mise a confronto due concezioni della nazione: l’una esaltante i vincoli comunitari e l’appartenenza a un gruppo etnico-linguistico, l’altra privilegiante il processo di aggregazione di fedeltà individuali.

Sul legame fra nazione e nazionalismo (o, in qualche caso, nazional-imperialismo) e sull’accostamento fra il concetto di nazione e il concetto di Stato la storiografia si è divisa. Per alcuni studiosi esiste una direttrice che collega direttamente la nazione al nazionalismo e questo all’imperialismo e al totalitarismo. Per altri, al contrario, tale esito non è affatto obbligato perché, per esempio, nella tradizione liberale europea è stato possibile coniugare la libertà con la nazione al punto che, in qualche caso, quest’ultima è stata vista addirittura – si pensi alla stagione della cosiddetta «rivoluzione delle nazionalità» – come una modalità di realizzazione della libertà.

Comunque sia, le analisi sulla natura del nazionalismo e sulle sue possibili tipologie – da parte non soltanto di storici ma anche di sociologi e politologi – si sono susseguite nel tempo nel tentativo di giungere a una teorizzazione generale del fenomeno. E oggi, in tempi di «sovranismo» più o meno strisciante, l’interesse per questo tema è andato crescendo. Dagli studi pionieristici di Hans Kohn che presentava il nazionalismo come una specie di perenne manifestazione di psicologia collettiva fino ai più articolati e raffinati lavori di Anthony D. Smith che ne individuano e analizzano il collegamento con le etnie pre-moderne, la ricerca ha fatto molti passi avanti.

In questo quadro, un approccio certamente originale è quello di Elie Kedourie con il suo volume Nazionalismo (pagg. CXVIII-206, euro 20), che, pubblicato originariamente nel 1960, appare finalmente in traduzione italiana per la casa editrice liberilibri a cura di Alberto Mingardi che vi ha premesso uno splendido saggio introduttivo. Quasi sconosciuto in Italia, Elie Kedourie (1926-1992) è stato un importante studioso di storia del Medio Oriente e di storia del pensiero politico e ha insegnato soprattutto alla London School of Economics dove fece parte del gruppo di intellettuali raccolti attorno al filosofo politico Michael Oakeshott che aveva trasformato quel «tempio del riformismo» in un cenacolo liberal-conservatore. Nato a Baghdad ed esponente della comunità ebraica, Kedourie abbandonò il paese d’origine quando, tra l’ultimo scorcio degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta, si ebbe una sorta di emigrazione di massa degli ebrei, molti dei quali si trasferirono in Palestina. Lui invece – questo giovane schivo e di poche parole, lettore voracissimo e di eccezionale vivacità intellettuale – scelse la Gran Bretagna dove concluse i suoi studi universitari e dove fece la sua carriera diventando uno dei maggiori specialisti del Medio Oriente.

Quando si accinse a scrivere il volume sul nazionalismo (che ebbe in Gran Bretagna più edizioni e suscitò polemiche) Kedourie aveva in animo un progetto preciso, quello di presentare il nazionalismo, appunto, come una «dottrina politica», cioè «un complesso di idee interrelate circa l’uomo, la società e la politica». Questo approccio, sostanzialmente di storia delle idee, presupponeva che il nazionalismo non fosse un «sentimento inarticolato e potente, presente sempre e ovunque» e che, neppure, fosse «un mero riflesso di particolari forze sociali ed economiche. Non a caso il saggio si apre con una dichiarazione precisa: «Il nazionalismo è una dottrina inventata in Europa all’inizio del Diciannovesimo secolo» la quale ritiene «che l’umanità sia divisa naturalmente in nazioni, che tali nazioni siano conosciute in virtù di certe caratteristiche che possono essere verificate e che l’unico tipo legittimo di governo sia l’autogoverno nazionale». È una definizione, in apparenza semplice, che, in realtà, cela implicazioni precise e profonde quale, per esempio, il rifiuto dell’approccio interpretativo di tipo marxista.

Ha fatto discutere (e in qualche caso ha scandalizzato) il fatto che Kedourie sostenesse che nel pedigree del nazionalismo, come teoria politica, vi sia la dottrina kantiana della legge morale e dell’autodeterminazione, pur attraverso la mediazione di alcuni discepoli di Kant a cominciare da Joahnn Gotlieb Fichte il cui nome è legato ai Discorsi alla nazione tedesca. Egli però ha avuto buon gioco a dimostrare come, al di là delle intenzioni kantiane, esistesse un sottile filo diretto fra l’idea dell’autodeterminazione individuale e quella dell’autodeterminazione nazionale che è, poi, alla base del nazionalismo propriamente detto. In un certo senso le sue tesi anticipano le considerazioni del grande pensatore liberale Isaiah Berlin che in un suo saggio raccolto nel volume Il senso della realtà (Adelphi) avrebbe parlato di Kant come «fonte poco nota del nazionalismo».

Il volume di Kedourie non è soltanto un saggio teorico importante sul concetto di nazione e sul nazionalismo, ma è anche, negli ultimi capitoli, un tentativo di analizzare le circostanze che hanno favorito la diffusione di tale teoria e le conseguenze che essa finì per provocare nelle classi politiche e intellettuali, europee e non soltanto. È, soprattutto, un grande libro che richiama alla mente una bellissima opera di un altro storico conservatore, Lewis Namier, La rivoluzione degli intellettuali (Einaudi), che probabilmente Kedourie non conobbe di persona ma certamente apprezzò. E, al tempo stesso, è una guida preziosa per capire l’architettura ideologica di una teoria politica, quella del nazionalismo, che, ancora oggi, pur nell’epoca della globalizzazione e del multilateralismo, finisce per avere, nel bene e nel male, un peso non da poco.

da Il Giornale, 26 gennaio 2022

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