Caro direttore, la recente proposta dell’Istituto Bruno Leoni sulla «fiat tax» ha il merito di aver innescato un dibattito sulla necessità di una profonda revisione dei meccanismi di tassazione del reddito, in una logica di semplificazione, equità e contrasto all’evasione.
Il dibattito mostra anche i limiti del processo di riforma fiscale avviato con il conferimento nel febbraio 2014 della delega al governo da parte del Parlamento per la realizzazione di una riforma fiscale.
Una delle assenze più rilevanti da questo quadro è l’adozione di una riforma fiscale ecologica finalizzata a spostare il carico fiscale dal reddito e dal lavoro alle attività dannose per l’ambiente. Tale riforma avrebbe come principali benefici la limitazione dei danni sociali generati dall’inquinamento e un maggiore reddito disponibile per le famiglie. L’effetto complessivo sarebbe un forte stimolo alla crescita dell’economia, con misure strutturali di sostegno all’attuale ripresa, indirizzando il nostro sistema produttivo verso la «green economy», dove il nostro Paese presenta già rilevanti elementi di vantaggio competitivo.
La ricetta della riforma fiscale ecologica viene suggerita al nostro governo ormai da diversi anni da parte di tutte le organizzazioni internazionali. In particolare nel 2013 l’Ocse aveva raccomandato l’adozione di misure in questo senso, ma nella valutazione delle performance economiche dell’Italia effettuata quest’anno ha attestato l’assenza di progressi su questo fronte. La Commissione europea a sua volta già nel 2012 aveva raccomandato all’Italia la rimodulazione in senso ambientale delle tasse esistenti a un generale spostamento del carico fiscale dal lavoro all’inquinamento e al consumo di risorse naturali.
Oggi alcune delle attività dannose per l’ambiente invece che essere tassate ricevono addirittura sussidi da parte dello Stato, grazie ad una capacità lobbistica ormai sedimentata dei soggetti che ne beneficiano. Non si tratta di un problema solo italiano, tant’è vero che il Fondo monetario internazionale stima che la sola eliminazione dei sussidi nel settore energetico a livello mondiale farebbe aumentare il gettito degli Stati di 2.900 miliardi di dollari (il 2,9% del Pil mondiale) riducendo le emissioni di CO2 del 20%.
Un primo importante passo è stato compiuto quest’anno con la pubblicazione da parte del ministero dell’Ambiente del Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi e dei sussidi ambientalmente favorevoli, istituito per legge l’anno precedente. Il documento, per quanto suscettibile di miglioramenti nelle edizioni dei prossimi anni, fornisce per la prima volta un quadro complessivo della dimensione del fenomeno nel nostro Paese.
Si quantificano i sussidi ambientalmente dannosi in 16,1 miliardi di euro (contro i i 15,7 di sussidi favorevoli all’ambiente, in particolare alle energie rinnovabili, sulla cui efficienza ci sarebbe pure da discutere) ripartiti nei settori dell’agricoltura, dell’energia e dei trasporti. Tra le voci più rilevanti: 1.551 milioni di euro di esenzione dall’accisa sui carburanti per gli aerei, 456 milioni di euro di esenzioni dall’accisa sui carburanti per la navigazione, 1.295 milioni di euro di rimborsi per il gasolio per l’autotrasporto, 634 milioni di euro di esenzione dall’accisa sull’energia elettrica nelle abitazioni con potenza fino a 3 kwh, 4.968 milioni di euro di differenza di trattamento fiscale tra gasolio (agevolato anche se più inquinante) e benzina nei trasporti. Il prossimo passaggio dovrebbe essere l’eliminazione di questi sussidi. In periodo elettorale qualcuno avrà il coraggio di farlo.
Dal Corriere della Sera, 24 ottobre 2017