Le anticipazioni del ministro Valditara sulle nuove Indicazioni Nazionali per la scuola riavviano consumati nastri di registrazione. Si torna a parlare dell’utilità del latino come strumento di logica, delle materie umanistiche versus quelle tecniche, dell’identità culturale più che dell’apertura alla conoscenza delle altre civiltà.
L’idea di fare della scuola la culla del classicismo occidentale e delle radici nazionalistiche può essere discutibile, come lo sarebbe stata qualsiasi altra idea su cosa insegnare – e con quali obiettivi. Una determinazione centralizzata delle conoscenze e competenze che i nostri figli devono raggiungere non può mettere d’accordo tutti. Se ci si aggiunge un po’ di conservatorismo, le polemiche diventano scontate. Forse proprio per questo il ministro, togliendosi fin da subito le spine nel fianco, ne ha anticipato in una intervista gli indirizzi generali, anche se il documento è ancora in fase di esame e confronto con il mondo della scuola.
Discorsi prematuri a parte, le reazioni alle parole del ministro sembrano distogliere l’attenzione su due questioni centrali, che riguardano il tipo di autonomia oggi riconosciuta alle scuole.
Le Indicazioni Nazionali non sono i programmi didattici, cioè non sono la lista delle cose che si devono imparare a scuola, ma l’insieme degli obiettivi di competenze e apprendimento che le scuole devono assicurare ai propri studenti. Un conto è dire che al termine di un ciclo scolastico lo studente deve saper elaborare un testo scritto o deve conoscere la storia del XX secolo, un conto è dire quali puntuali contenuti devono essere insegnati. Gli obiettivi non sono tutti generali e ve ne sono di specifici attinenti alle singole discipline, ma l’autonomia scolastica consente agli istituti di avere un po’ di agio nel definire i loro programmi. Dalla legge Bassanini, alla fine degli anni Novanta, la programmazione scolastica viene infatti definita non dai programmi del ministero, ma dalle singole scuole con i loro specifici piani di offerta formativa, che possono tenere conto, all’interno delle Indicazioni Nazionali, delle caratteristiche del territorio in cui si trovano o dei bisogni formativi dei loro studenti.
Intendiamoci: la riconosciuta autonomia non vuol dire che possono insegnare quello che vogliono. Pur nella griglia ministeriale di obiettivi generali e specifici, però, hanno una quota di programmazione con cui possono differenziare la loro offerta didattica e soprattutto possono interpretare come arrivare agli obiettivi previsti dalle Indicazioni Nazionali, che costituiscono delle linee guida, più che una pianificazione concreta degli insegnamenti.
Le scuole, in sostanza, possono immaginare metodi e cose da insegnare in parte diversi da quelli immaginati dal ministro. Si può credere, e chi scrive lo crede, che quella parte sia comunque troppo poco ma non è questo il punto. Il punto è che forse nemmeno quella ridotta parte è ancora utilizzata e valorizzata appieno come elemento di concreta differenziazione.
Sarebbe proprio questo un momento utile, anche all’opposizione, per ricordare alle scuole di sfruttare questa pur limitata autonomia, dimostrando di meritarne molta di più e di potersi affrancare da un antistorico tutoraggio ministeriale.
L’altra questione che questa nuova polemica lascia in ombra è che il vero problema della scuola non è tanto cosa insegna, ma come è organizzata. E non è solo un problema di aule multimediali o uso della tecnologia. Gli insegnanti svolgono una funzione essenziale ma lo fanno senza il riconoscimento che essa merita. E opinione comune che siano poco pagati. Meno comune è che siano poco gratificati nelle modalità di reclutamento, di avvio e avanzamento di carriera, che sono tali da indurli a esprimere in maniera ripetitiva le proprie competenze, senza mettersi necessariamente in gioco e manifestare pienamente il proprio valore, se non per vocazione. Purtroppo, dell’autonomia scolastica che servirebbe a questo tipo di gratificazione non si vuol parlare mai.