La pluralità degli ordinamenti è nella storia del Continente

Le strutture dirigistiche e verticistiche ne sono la negazione

16 Novembre 2016

Il Giornale

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

La decisione dei britannici di lasciare l’Unione europea avvenuta con voto popolare (e che molto difficilmente potrà essere rovesciata dall’azione delle corti o dalla volontà delle assemblee parlamentari) è uno di quegli avvenimenti che possono veramente cambiare lo scenario globale.

In fondo, il progetto europeista nasceva da un antico sogno di matrice kantiana: l’idea che l’umanità dovesse dirigersi verso la cancellazione delle frontiere e in tal modo scongiurare ogni guerra, ogni chiusura particolaristica, ogni ottuso nazionalismo. Dopo un Ottocento dominato da spinte patriottiche e dall’idea che a ogni lingua debba corrispondere un unico ordine politico, quanti hanno sognato un’Europa unita quale primo passo verso un’umanità raccolta sotto un solo governo hanno lavorato per realizzare istituzioni di tipo nuovo: sovranazionali e in grado di cancellare i confini storici.

In fondo, è stato proprio uno tra i più noti interpreti della cultura popolare inglese del secolo scorso, John Lennon, a interpretare in Imagine questa discutibile utopia di un mondo senza divisioni e senza barriere, senza guerre e senza differenze. Al di là delle intenzioni stesse, il progetto dell’Europa-Stato – oggi in difficoltà, ma tutt’altro che accantonato – poggiava su un ingegnerismo che ha suscitato reazioni molto vive.

Perché se da un lato è fuor di discussione che esista una profonda unità tra tutti gli esseri umani e ancor più tra gli europei, al contempo è vero che le differenti storie e tradizioni pesano. L’intenzione di annullare l’insularità britannica entro una generica identità continentale si è rivelata velleitaria e ha generato quella maggioranza espressasi a sostegno della Brexit. L’Europa ha allora bisogno di ben altro che di un unico governo continentale: per varie ragioni.

Innanzi tutto, uno dei tratti più specifici della tradizione europea è da riconoscere nella pluralità dei propri ordinamenti. In particolar modo nell’età medievale (la fase storica che è all’origine del successo europeo) ma pure successivamente, l’Europa è stata caratterizzata da una forte coerenza culturale unita a una molteplicità di sistemi politici indipendenti. Da sempre, l’Europa è particolarismo, pluralismo, diversità. In questo senso, quanti vogliono unificare l’Europa sono gli inconsapevoli interpreti di un progetto radicalmente anti-europeo.

Oltre a questo, come mostra pure la formidabile fioritura di quell’altra Europa collocata oltre Atlantico (il Nord America dell’esperimento federale statunitense), un potere localizzato e responsabilizzato è premessa per una virtuosa concorrenza tra istituzioni e, di conseguenza, per un’ampia libertà individuale. Quando un minuscolo cantone deve temere che l’adozione di alte imposte e un alto debito pubblico possano indurre imprese e famiglie e spostarsi nel cantone vicino, è più facile che un po’ ovunque si adottino politiche di taglio liberale.

La Brexit ha dunque avuto un merito: ci ha detto che il nostro destino non è necessariamente quello di cittadini senza potere entro un’istituzione immensa, nella quale ogni voce (per forza di cose) è assai flebile. D’altra parte è evidente come la prospettiva autenticamente liberale lontana da ogni nazionalismo, da ogni statalismo e da ogni logica dirigista auspichi «governi locali e mercati globali».

La cosa può sembrare contraddittoria, ma non lo è: in fondo la stessa unificazione italiana rappresentò la fine delle barriere doganali tra i piccoli stati preunitari, ma pose pure le premesse per un ben peggiore protezionismo su scala italiana. Ogni chiusura autarchica è ben più facile entro istituzionali nazionali e sovranazionali, mentre è assai complicata da realizzarsi nel quadro di piccole realtà regionali indipendenti.

Oggi il voto britannico ha segnato una battuta d’arresto per il progetto di un’Europa unita con capitale a Bruxelles, ma al tempo stesso la più che legittima rivolta contro le classi dirigenti si sposa spesso a logiche di chiusura. Lo scenario attuale, insomma, presenta anche specifici rischi. Il timore che vaste masse di africani e asiatici si trasferiscano in Europa sta modificando in profondità il dibattito politico, dando sempre più peso ai fautori di logiche protezionistiche, avverse alla libertà individuale e ispirate da ogni sorta di nazionalismo identitario. Una politica tanto solidaristica quanto fallimentare, figlia delle vecchie ideologie progressiste, sta favorendo il successo di alternative egualmente disastrose: e se il vizio originario delle tecnocrazie illuministe consisteva nella presunzione propria di quanti vogliono disegnare la società a partire dai loro progetti e teoremi, oggi chi si oppone loro cavalca ogni forma di irrazionalità e ogni genere di pulsione.

Il progetto di un’Europa unita è stato e continua a essere una seria minaccia per le libertà individuali, ma è bene comprendere come esso sia stato elaborato dai poteri nazionali ed entro logiche di carattere statuale. La vera risposta al dirigismo degli eurocrati, allora, non consiste nel difendere uno sciovinismo alla Le Pen, nemico del mercato e delle autonomie locali, ma semmai nel rivalorizzare l’economia di mercato e lo spirito dell’autogoverno.

In uno dei testi fondamentali della civiltà europea, la conferenza tenuta da Benjamin Constant nel 1819 sulle libertà degli antichi e dei moderni, questo formidabile protagonista del pensiero liberale sottolineò proprio come lo spirito di noi moderni sia orientato all’autonomia di coscienza, alla libertà di scelta, al commercio e alla pace, al riconoscimento dei diritti individuali. Per rafforzare questa sua natura profonda l’Europa deve uscire dalle logiche della statualità e organizzarsi quale vasta rete di minuscole entità politiche che si autogovernano e che, in tal modo, riconoscono la più ampia libertà di scelta, iniziativa e movimento a tutti gli attori.

Dopo la Brexit e lo scacco all’Unione, è il momento che ci si attivi per una rinascita della società europea che consegni al passato i poteri nazionali e rivitalizzi città e regioni, al fine di allargare le libertà dei singoli e delle comunità. Se Bruxelles-capitale è stato il sogno di quanti si sono sempre entusiasmati dinanzi a Parigi-capitale (e alle categorie prima assolutiste e poi democratiche che hanno segnato la modernità politica), è il momento di licenziare questa Europa prigioniera di miti variamente autoritari e collettivisti.

L’Europa delle libertà non è stata elaborata dai re e dalle burocrazie di Stato, dagli eserciti e dai parlamenti. Al contrario, essa è sorta e si è progressivamente affermata negli spazi lasciati liberi dal potere e anche entro quei mondi mercantili (dalle città italiane a quelle fiammminghe, dalle Province Unite olandesi all’Ansa tedesca) in cui l’autogoverno locale si è sposato all’intraprendenza di viaggiatori, banchieri, mercanti e industriali.

Quando parlava di questa Europa estranea alla statualità di tipo francese, Gianfranco Miglio amava parlare dell’«altra metà del cielo», a sottolineare come l’imporsi di strutture sovrane e verticistiche fosse il risultato di un processo storico tutt’altro che lineare, necessario, ineluttabile. L’Europa del dopo-Brexit, allora, è un’Europa che ha di fronte a sé rischi e opportunità. C’è il rischio che la delegittimazione dell’establishment si accompagni a chiusure e particolarismi, e che proprio questa ottusità protezionistica offra anche nuove chance a quel progetto di unificazione che l’elettorato britannico ha rigettato.

E al tempo stesso è però anche possibile che la ragionevolezza prevalga e che l’uscita dei britannici dall’Unione preluda a una riformulazione della cartina europea che moltiplichi le giurisdizioni e riaffermi il diritto all’autogoverno: in una realtà come la Catalogna, impegnata in un braccio di ferro con Madrid, e in altre che intendono seguire quell’esempio.

Contrariamente a quanto molti pensano, è assai più facile realizzare un’Europa integrata economicamente se essa è divisa in molteplici entità politiche: e questo perché le piccole realtà non possono permettersi il “lusso” di chiudersi all’esterno, adottare politiche protezionistiche, sviluppare una politica aggressiva e minacciosa della pace e della tranquillità altrui. In tal senso, quanti vogliono impegnare contro il declino attuale del Vecchio Continente possono ragionevolmente ritenere che un’Europa fatta di tanti cantoni svizzeri e innumerevoli Liechtenstein sia assai meglio in grado di creare spazi di libertà e, di conseguenza, anche di porre le premesse per una sua rinascita.

Da Il Giornale, 16 novembre 2016

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