In questa fase di fine legislatura, è chiaro che la politica giochi di difesa e non voglia esporsi con grandi iniziative.
Tra le misure che verranno approvate oggi sotto la copertura della fiducia alla manovra, ce ne sono due, da questo punto di vista, emblematiche.
La prima è la reintroduzione dei voucher, abrogati per evitare il referendum che si sarebbe dovuto tenere a fine giugno e ora di nuovo introdotti con più ampi limiti. Al di là di quello che si pensi dei voucher – e noi ne abbiamo già parlato qui – il metodo seguito dal governo è stato quello di lanciare il sasso e nascondere la mano, venendo incontro alle esigenze del mercato del lavoro ma evitando il costoso conflitto, in termini politici, con i sindacati.
La seconda è la cosiddetta web tax, che di web tax ha ben poco.
È sempre più popolare pensare che la pietra dello scandalo della questione fiscale siano le imprese del web. Tassare Google o Facebook non risolverà nulla delle distorsioni fiscali a cui siamo sottoposti, ma trovare un capro espiatorio è sempre una consolazione.
Non è facile individuare un criterio per tassare imprese dematerializzate né un criterio per dire quando un impresa è digitale. l governi lo sanno, ma intanto costruiscono i loro castelli di sabbia.
Così, l’emendamento della manovra, ben lontano dall’imporre un nuovo regime di tassazione per le aziende del web, ha semplicemente specificato che queste possono accedere a un meccanismo di adesione in realtà già previsto in via generale, per i cui dettagli rinviamo al paper «Web tax: solo una soluzione internazionale può evitare un pasticcio all’italiana» (PDF), di Piercamillo Falasca e Francesco Del Prato.
Fare i robin hood contro i giganti del web è di sicura presa di fronte a un elettorato stremato dalla pressione fiscale e a una alternativa zero di riduzione della spesa.
Ma dietro queste scelte vuote, i problemi restano quelli di sempre. Si scansano solo per un po’.
15 giugno 2017